Alberto Papuzzi
Era il 15 gennaio del 1991, dieci anni fa, e sembrava oggi. Anche allora incombeva il clima minaccioso della guerra. Forse con più asprezza e sgomento, perché da cinquant’anni la parola guerra riguardava altri territori, altri confini, non la nostra piccola patria diventata potenza industriale quasi senza saperlo. Eravamo tutti più vergini di fronti bellici. Per cui ci fu il silenzioso assieparsi del popolo della sinistra, con i cattolici e con il volontariato, nelle piazze notturne, raggelate dallo stupore che la guerra ci riguardasse da vicino, entrasse nelle nostre case, che soldati italiani dovessero di nuovo combattere sul serio, che fossimo coinvolti nella responsabilità morale di bombardamenti e ammazzamenti. Era la sera del 15 gennaio, scadeva l’ultimatum dell’Onu all’Iraq, invasore del Kuwait, e Norberto Bobbio rilasciò una dichiarazione al Tg3 del Piemonte, in cui sosteneva che la guerra contro l’Iraq di Saddam era giusta, bisognava vedere se sarebbe stata anche efficace.
Quattro giorni dopo il filosofo chiariva la posizione sul nostro giornale, esprimendo la convinzione che i comportamenti di Saddam avevano reso inevitabile il conflitto: «Per quanto lunga sia la catena dei "se", questa finisce inevitabilmente nel dittatore iracheno». I pacifisti, cioè, finivano per fare il gioco dell’avversario. I suoi allievi più affezionati non esitarono a contestarlo: ne nacque uno dei più appassionanti dibattiti sulla guerra, ospitato al torinese Istituto Gramsci, in cui Bobbio ribadì che la guerra rispondeva a un fondamentale principio di giustizia, sancito dal diritto internazionale, e che per essere efficace avrebbe dovuto essere anche rapida e vincente. Alle obiezioni che gli vennero dalla cerchia degli allievi e da diversi intellettuali (da Cacciari a Luporini) che ritenevano obsoleta la distinzione fra guerre giuste e ingiuste, rispose con nettezza: «Rinunciare alla forza in certi casi non significa mettere la forza fuori gioco ma unicamente favorire la forza del prepotente».
Dieci anni dopo il professore si dichiara stanco; bloccato in casa dagli acciacchi della vecchiaia, gli sembra di non avere sufficienti energie per spiegare le ragioni della nuova guerra. Anche lui si sente, come tutti noi, in realtà più disarmato di fronte a un dramma che si rivela ancora più vicino di quella di allora, più carico di dilemmi morali. Come noi, anche lui fa più fatica a trovare le risposte, che mettano a tacere le ansie sollevate dagli attentati terroristici, dalle minacce batteriologiche, dai bombardamenti americani e dalle bombe sbagliate. Dice: «È spaventoso. Mi sento angosciato». Dice: «E il futuro promette il peggio». Oggi Bobbio compie 92 anni. Auguri, professore. Come ci manca il limpido soccorso del suo pensiero.