IL PROBLEMA DELLA TERRA


     Il problema della terra, dopo l'effimera vampata post-bellica, è oramai quasi passato di moda, assorbiti come sono i nostri economisti per la maggior parte negli studi dell'economia industriale, quasi che non fosse una verità, banale fin che si vuole, ma vera, che mezza Italia vive dell'agricoltura.. Va data lode perciò ad un silenzioso studioso meridionale, Raffaele Ciasca (1), di avere richiamata l'attenzione sulla questione agraria, esponendola nel libro di cui ci occupiamo con la più cristallina chiarezza e la più serena obbiettività, in base a tutto quanto s'è scritto e s'è proposto, non solo, ma a quanto s'è fatto finora, con criteri a volte troppo dissimili da quelli che avrebbero dovuto regolare i nostri uomini politici, solo che avessero voluto tenere a mente i mali effettivi e le concrete speranze di rinascita che offriva l'ambiente.

     Leggendo l'opera del Ciasca, si conclude che il problema della terra, attraverso le concezioni di tutti gli studiosi e dei pratici, si riassume in due termini fondamentali:

     a) essendo l'Italia il giardino d'Europa cantato più volte da molti poeti in molti versi, bisogna che essa raggiunga una produzione granaria bastante non solo ai cittadini che vivono nel paese, ma sufficiente per alimentare una vasta esportazione;

     b) essendo numerosi i latifondi incolti sia al nord che al sud, ma più specialmente al sud preda come sono di una borghesia inetta e d'un proletariato ignavo, perché non padrone della terra, conviene che i latifondi sterminati e innumerevoli siano divisi tra i contadini che, diventati essi stessi proprietari, cercheranno di intensificare la produzione, e la intensificheranno, buttando magari nei solchi tutto il loro sangue, ed eviteranno al mondo lo sconcio di terre benedette da madre natura, ora fatte selvagge da sterminate distese di campi nudi e deserti, e abitate da gente accidiosa e incapace, che le impoveriscono sempre più con la coltura estensiva dei vasti latifondi.

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     È il latifondo insomma la bestia nera che fornisce motivi di canto ad ogni cicala, ma parlandone ad ogni piè sospinto senza la precisa conoscenza di quello che sia il problema agrario in questa nostra Italia che si continua a ritenere "fiore di tutte le stirpi, aroma di tutta la terra", quando è un paese per natura povero, e che una insana politica generale contribuisce ad impoverire sempre più; parlandone senza cognizione di causa si giunge fatalmente agli eccessi cui s'è abbandonato il legislatore italiano da sei anni in qua, premuroso di stringere l'agricoltura in un cerchio di ferro quasi che lo schiavo non avesse in ogni tempo prodotto meno del lavoratore libero.





     Fino ad oggi, dall'inizio della guerra, assillato dalla questione del rifornimento granario, il Governo italiano s'è preoccupato soltanto della cultura del frumento necessario a confezionare il pane di cui v'è bisogno in Italia. Ma l'Italia, ammoniscono studiosi valentissimi fra i quali basta notare il Valenti, il Fortunato, l'Azimonti, è un paese che solo in pochi tratti é favorevole alla granicultura, occupato in massima com'è da terreni su cui le spighe muoiono di sete e sono avare di chicchi; l'Italia rende pochi quintali per ettaro, insufficienti al consumo e inadatti all'accumulazione di tanto risparmio quanto ne chiede 1'approvvigionamento all'estero; l'Italia può ottenere con altre culture e per ogni ettaro 12000 lire (canapa), da 5 a 10,000 (pomodori), 3000 (prato stabile), col quale provento si possono agevolmente comprare negli altri paesi 55, 30, 15 quintali di grano, in misura cioè notevolmente superiore alla stessa produzione italiana, che a volta non raggiunge nemmeno i 10 quintali per ettaro. Tutto questo è verissimo, e ad ogni persona di buon senso parrebbe logico permettere la cultura della canapa, del pomodoro, o la diffusione del prato stabile, di quest'ultimo specialmente, quando si pensi che il nostro pecorino si potrebbe vendere in Argentina a prezzi sei o sette volte superiori a quelli permessi in Italia. Parrebbe logico ad ogni persona di buon senso, non a chi è stato finora a capo della politica italiana, e che ha visto nella produzione di 10 quintali di grano per ettaro (provento lordo 1200 o 1340 lire) la salvezza del paese. E siccome tra i contadini nessuno si piegava all'abbandono di culture più redditizie (ad es. quella dei fiori, che in Liguria rende fino 20 mila lire all'ettaro), così s'è imposta la coltivazione obbligatoria del grano che non ha mai reso quanto s'era sperato (si leggano al riguardo le sarcastiche osservazioni del Ricci). Ma siccome la coltivazione obbligatoria del grano non ha reso i frutti mirabili che se ne attendevano, la si è imposta anche in terreni che non sono mai stati squarciati dall'aratro, ma che sono rimasti saldi, a pascolo per la maggior parte, come la famosa tenuta Pantanella dei Fortunato in val d'Ofanto, con l'unico risultato di distruggere il modello della perfetta fattoria armentizia del mezzogiorno e di condannare la terra all'impoverimento progressivo, abbandonata com'è ad una continua cultura di rapina.





     È un lavoro legislativo continuo per spezzare il latifondo, come se da esso derivassero tutti i mali dell'economia agricola italiana, e farvi sorgere in sua vece qualche cosa che non può sorgere; e tutto un gioco a mosca cieca che, stando alle recenti elucubrazioni della letteratura sull'argomento non accenna a finire, prova ne sia il disegno di legge che è stato presentato alla Camera e che sarà discusso tra non molto, e al quale occhieggiano già demagoghi di ogni risma, ognora in cerca di facile popolarità presso elettori illusi. Il latifondo impedisce che l'Italia si liberi dal giogo straniero per il pane che le bisogna: permettiamone le invasioni (cortese eufemismo per mascherare il furto della terra) e le divisioni e tutta l'Italia mangerà grano di casa sua, quasi che la lunga storia della parte meno ricca d'Italia (il mezzogiorno) non ammonisse severamente che nessuna divisione di terre, nemmeno quella fatta su larga scala nel 1906, è servita a risolvere la questione agraria. Si brancola nel buio da anni, ma si vuole sempre ripetere che 1'Italia risorgerà soltanto se l'amministrazione delle terre verrà tolta agli attuali proprietari e data o ai contadini o allo Stato, il Leviathan dell'era d'oro, il quale provvederà a tutto per mezzo di una cospicua burocrazia centrale e provinciale capace di mutare ogni villano nel più provetto degli agricoltori, quasi che la dolorosa cronaca degli ultimi tempi non ammonisse sull'inutilità di ricercare le vie della luce in gente che della terra ha una vaga nozione, e che spera di far crescere il grano sulla vetta del Cervino solo che venga emesso dal competente Ministero il decreto ad hoc.

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     Il problema della terra, quale appare dalle ricerche fatte da studiosi seri, dev'essere invece posto in altri termini. Non la terra fertile ed il clima favorevole che un semplice decreto-legge può obbligare a favorire la granicoltura, ma il mirabile sforzo degli agricoltori a produrre grano, vino, canapa, riso, olio, in odio alla terra, che in Italia non è stata benedetta da Dio, ma è poco buona, e che dal Tevere in giù diventa pessima, infeconda e malarica com'è, terra bruciata dal molto sole, e poco fornita di acqua: ecco la prima affermazione dettata dall'esperienza amara della vita d'ogni giorno. Contro i canti artificiosi e retorici di feracità superba, di sole magnifico, di aria purissima, questa dell'inferiorità naturale dell'Italia è la prima affermazione che il Ciasca fa e che è la chiave di volta di tutta l'economia agricola italiana, fiorente in paesi dove la maggiore ricchezza individuale ha permesso, come nella valle Padana, in capo a lunghi secoli di lavoro intenso, di mutare le marcite in campi rigogliosi di messi. Il problema della terra in Italia è originato dalla grande sproporzione tra la popolazione che aumenta sempre e il reddito dei campi che rimane stazionario: crescono i bisogni, ma non i mezzi per soddisfarli, e s'acuisce di continuo lo squilibrio. L'Italia non è l'alma parens frugum di Virgilio, perché secondo i calcoli migliori solo un milione, magari due su cinque milioni di terreno poco redditizio è suscettibile, stando le cose come sono adesso, di produrre di più, e gran parte della penisola vale poco perché sterile e malarica, e perché soggetta ad un flagello più grave della stessa sterilità, la mancanza d'acqua, l'umidità insufficiente, lo squallore delle siccità. Ma la terra povera può essere rinvigorita e il clima può essere modificato: è questo il compito della colonizzazione interna, un lavoro di largo respiro che potrà migliorare l'agricoltura italiana una in modo soddisfacente, se non indefinito, quando il prezzo del danaro, ora altissimo, sia dappertutto, fortemente diminuito, perché solo allora vi sarà la convenienza di profondere milioni per trasformare la terra. Perché i capitali destinati all'agricoltura non fruttano appena sono impiegati, come avviene di solito per gli investimenti industriali ma danno il loro utile solo a distanza di anni, se non di lustri, purché le condizioni dell'ambiente lo permettano: la colonizzazione interna è opera di paesi ricchi, e richiede tempo e danaro, impiegati con libertà, quella libertà che, scriveva il deputato Perrone: è la saviezza. Ora, l'agricoltura italiana non può ottenere capitali a buon mercato, poiché tutta la politica dello Stato è congegnata in modo da cristallizzare artificialmente le culture a cereali in terre che potrebbero essere utilizzate meglio; a rialzare tutti i costi della produzione agraria con forti dazi di protezione, e a confiscare tutta la massa del risparmio con debiti sempre più gravi, e dei quali non si conoscono né l'ammontare, né l'incremento annuo, e con imposte barbariche e squilibrate, che molte volte colpiscono l'agricoltura tanto più quanto più povera è la terra.





     Prima che sia possibile effettivamente la colonizzazione interna in Italia, il problema agrario, sottratti i campi agli attuali possessori o lasciati ancora nelle loro mani, sarà sempre la questione insolubile di un paese dall'aumento fortissimo della popolazione rispetto alla deficiente potenzialità della ricchezza, destinato ad allontanarsi sempre dall'equilibrio tra i bisogni e le forze, in cui consiste - scriveva Vincenzo Coco, ed a ragione - "non meno la sanità dei popoli che la prosperità delle nazioni" equilibrio al quale non si giunge né con la divisione del latifondo vagheggiata ancora recentemente dal Congresso di Palermo della Democrazia sociale, né con i disegni di legge ed i progetti che nascono di giorno in giorno nel fertile cervello dei meno competenti scrittori italiani. L'avere affermato risolutamente questo, ponendosi in una posizione di netta antitesi alla corrente che domina in Italia, è a parer mio, il maggior merito di Raffaele Ciasca.

GIUSEPPE STOLFI.

(1) RAFFAELE CIASCA: I problemi della terra, con prefazione Giuseppe Prato. Milano, Fratelli Treves ed., pag. XXXI-286. L.8.



     Molti non vedono questa verità fondamentale: la produzione va innanzi non tanto in virtù del capitale esistente, quanto in virtù del capitale nuovo, che si va via via formando. La terra è lì, da secoli. Ma in due o tre anni se il coltivatore non vi immette concimi, se non rinnova le opere di scolo, se non sostituisce le piante morte o deperite la produzione scende alla metà, ad un terzo. In dieci anni si riduce a zero. Se in una fabbrica non si impiega ogni anno, continuamente, nuovo capitale il vecchio macchinario arrugginisce, invecchia. Presto non serve più a nulla. Pochissimi anni bastano per trasformare un opificio che impiegava migliaia di operai e produceva cospicui utili in un ammasso di mura crollanti e di ferraccio inservibile. Chi tien viva l'industria è il risparmio nuovo. Mai come in questo momento, in cui tante cose sono da fare e da rinnovare, è stata necessaria una produzione abbondante di risparmio. Ma "risparmio" vuol dire rinunciare a consumare subito, vuol dire produrre molto e consumare meno in oggetti e beni di godimento immediato.

LUIGI EINAUDI.