LA MONARCHIA SOCIALISTA

    La tesi fondamentale di questo libro è vecchia: lo Stato moderno, inteso come Stato etico, non è realizzabile se non nelle nazioni che abbiano superato l'idea cattolica mediante la riforma protestante. Tutti gli altri, tutti gli Stati, cioè, che non siano il prodotto genuino e logico di una rivoluzione spirituale, sono fatalmente condannati ad oscillare fra una democrazia astratta, che ben presto degenera in demagogia, ed un autoritarismo di classe, che è la negazione della idea liberale. In entrambi i casi, è impossibile parlare di libertà.

    Ho assunto, pertanto, quel periodo della storia d'Italia, che va dal '48 alla vigilia della guerra europea, come una riprova, direi una esemplificazione, atta ad avvalorare una tesi filosofica. Di qui la necessità di esaminare la storia d'Italia, da Mazzini a Giolitti, attraverso il conflitto, ora tacito, ora palese, che esiste ed esisterà ancora chissà per quanto tempo, fra lo Stato e la Chiesa. Stato e Chiesa - non lo si ripeterà mai a sufficienza - non rappresentano soltanto due istituti giuridici, ma due aspetti del nostro spirito, due concezioni integrali della vita. Lo Stato moderno tende indubbiamente a risolvere in sé l'elemento divino della Chiesa ed a bastare a sé stesso. Vi riesce? Nei paesi germanici ed anglosassoni la prova si può dire riuscita, nonostante le crisi politiche ed i frequenti conati verso ritorni impossibili, nei paesi rimasti cattolici, al contrario, non è chi non veda come la contraddizione fra l'idea religiosa e l'idea civile renda impossibile l'autorità e la riverenza dovuta allo Stato. Il problema, che presenta tutti i caratteri della insolubilità, si va ogni giorno più spiritualizzando perché si sposta, dall'esteriorità di un conflitto giuridico e legislativo, verso l'intimità della coscienza individuale. Se è vero che lo Stato tende a diventare Chiesa, è altrettanto vero che la Chiesa non ha mai rinunziato e non rinunzia, e non rinunzierà, a diventare Stato. Che essa abbandoni le assurde pretese del potere temporale; che gli zelatori della Curia reclamino più sicure garanzie per la libertà del Papa fino a perorare in favore di una legge internazionale, non ha importanza. Ha importanza invece, e capitale, il fatto che i cattolici si risvegliano e scendono in campo in nome di una concezione totale della vita, di un principio morale; in nome di una dottrina, cioè, che mira a risolvere e dissolvere la politica nella morale. Per i cattolici, infatti, non esistono e non possono esistere problemi politici propriamente detti, ma soltanto ed unicamente problemi morali, che la coscienza risolve ispirandosi alla religione, di cui è custode supremo il Pontefice, interprete infallibile della rivelazione. Non vi è chi non veda come ritorni in onore, in tutta la sua vigorosa integrità, la concezione teocratica della vita e del mondo. È merito di Pio X l'avere affermato risolutamente questa esigenza insopprimibile contro le velleità di una politica di clientele e di compromessi. Se fosse lecito adoperare una espressione paradossale direi che egli fu il Lutero della teocrazia.





    Quali siano le conseguenze, che è lecito trarre da queste premesse, è chiaro. Credo di averle tratte con assoluto rigore nelle pagine che seguono. Mi pare che la logica autorizzi ad affermare l'inesistenza di una rivoluzione italiana; a riguardare il Risorgimento come un grande episodio della millenaria storia d'Italia, ché solo in tale modo si spiega e s'intende, mentre riesce inintelligibile inquadrato nella storia europea del secolo decimonono; a vedere nel pensiero liberale della Destra storica la sola affermazione seriamente rivoluzionaria; nell'avvento della Sinistra il principio della reazione monarchica e borghese; nel socialismo italiano un provvidenziale diversivo, una remora contro i pericoli dell'idea liberale rinascente, nel parlamentarismo una simulazione democratica al servizio delle clientele borghesi e del capitalismo; in Giolitti l'ultimo statista del Risorgimento e nella Monarchia la formula più economica dell'unità amministrativa.

    Il problema italiano resta immutato anche all'indomani della guerra europea. Può, lo Stato italiano, accedere seriamente alle richieste di una vera democrazia? I governi, che si sono succeduti dal 1876 ad oggi, hanno chiaramente dimostrato di non crederlo. La struttura della Stato italiano è troppo fragile per resistere alle inevitabili scosse di una politica di idee e di principi. Costante preoccupazione dei nostri uomini di governo fu quella di ricondurre il sistema parlamentare ad un puro e semplice costituzionalismo, che assegnasse al Parlamento l'ufficio di annullare le antitesi politiche, che si delineavano nel paese.

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    Chi esamina la storia italiana degli ultimi vent'anni non può non restare colpito da una strana coincidenza: tutte le volte che qualche passione politica scuote le intime fibre del Paese, la Monarchia viene posta in discussione. Dal '96 al '14, da Adua alla dichiarazione della neutralità, attraverso le tumultuose vicende, che si chiamano novantotto, sciopero generale, settimana rossa, giornate di maggio, il problema istituzionale affiora. All'indomani della guerra vittoriosa, opera della Monarchia, non si è chiesta la Costituente? In pochi paesi la Monarchia è accettata come in Italia; ma in nessun paese, come nel nostro, il principio monarchico è in più stridente contraddizione con l'idea dello Stato moderno.

    L'idea liberale è ancora una leva rivoluzionaria. È necessario evitare tutto ciò che può richiamare lo Stato alla sua logica. Le riforme, largite dall'82 al 1911, non hanno avuto altro scopo. L'ordine e la stabilità delle istituzioni respingono unanimi quelle riforme, che potrebbero destare l'assopito spirito politico del popolo italiano. La politica è sequestrata dal Governo, complice il Parlamento. Si accetta la funzione, ma se ne respingono gli organi. Il riformismo e il trasformismo sono le espressioni della politica monarchica e conservatrice della borghesia. Lo stesso suffragio universale fu invocato ed attuato come rimedio sovrano contro le minoranze più audacemente politiche. Un problema tremendo per lo Stato e per la Monarchia sorgerà il giorno in cui, dopo il voto alle donne, si saranno esaurite tutte le riserve numeriche. Allora soltanto si vedrà se lo Stato potrà essere all'altezza del suo principio e della propria formula ideale. È probabile che quel giorno segni il tramonto della Monarchia.





    All'indomani della guerra mondiale i termini del nostro problema politico si sono talmente spostati, che non è possibile tentare previsioni ragionevoli. La mediocre politica monarchica e borghese aveva un senso e un'importanza finché l'Italia si muoveva in un'Europa che serbava indiscusso il primato nel mondo e in un sistema di alleanze pacifiche, che le permettevano di atteggiarsi a grande potenza con poca spesa. Ma quell'equilibrio infranto, dove troverà i motivi per una affermazione ideale originale o gli espedienti per rimuovere le contraddizioni implacabili, che sorgeranno dal suo seno? Se il socialismo, fino alla vigilia della guerra, poté apparire e poté essere, il fortunato espediente, che permetteva allo Stato monarchico di tradurre in termini di economia i problemi politici, che sarà domani, nella nuova Internazionale, che porta la guerra ovunque e pare richiamarsi, più che all'invincibile idea della lotta di classe, alla inesorabile catastrofe dell'economia capitalistica, all'impossibilità, da parte delle borghesie, di uscire dall'inferno della pace, da un sistema di pace, che è peggiore della guerra? Non sarà chiamato, questo socialismo, già così comodo, come espressione della mentalità piccolo-borghese dell'anteguerra, ad elaborare qualche ideologia nuova, che interpreti i nuovi valori universali e, in pari tempo, denunzi, con la forza irresistibile dell'istinto, le immanenti e irremovibili, esigenze nazionali? Se è vero che l'Italia si rinnovò tutte le volte che fu attratta nella storia europea da iniziative altrui, è altrettanto vero che il socialismo rappresenta, oggi, la sola coscienza veramente europea, contro gli egoismi dei nazionalismi, che sono tutti dei vinti o dei morti. E allora : quale espressione meramente politica potrà assumere nei singoli Stati la nuova coscienza socialista? Mi pare evidente che le monarchie in una Europa per tre quarti socialista e repubblicana dovranno rinunziare a sperare salute nei piccoli capolavori di quella politica domestica, che contrassegnò la vita degli Stati europei negli anni precedenti l'agosto fatale. È probabile che il socialismo risvegli nelle moltitudini oppresse quello spirito propriamente politico, che l'educazione, tradizionalmente cattolica, mortificò per lunghi anni e concluda ad una conseguente affermazione ideale dello Stato. Si potrà discutere, in sede di economia, il valore sostanziale delle dottrine socialistiche ed anche abbattere, filosoficamente, la concezione materialistica della storia; ma nessuno, credo, potrà negare l'incommensurabile valore del socialismo inteso come moto di liberazione e di redenzione spirituale. Chi, nel socialismo e nella lotta di classe, non sa vedere la continuazione di quel moto di ribellione e di affermazione della coscienza individuale, che fu la Riforma; continuazione, che si effettua sul terreno proprio del nostro tempo, che è quello dell'economia e della grande industria, chi non sa vedere tutto ciò, è negato ad intendere la storia.


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    Come al solito, i liberali, quei liberali che si chiamano tali per equivoco, ma sono, in realtà, dei conservatori, preferiscono trovare un appoggio ed un consenso nei cattolici, non accorgendosi che la politica di conservazione uccide lo spirito liberale e il principio stesso, di cui lo Stato vive. Se all'idea dello Stato i popoli possono pervenire soltanto attraverso lunghe e dolorose esperienze di coscienza, è lecito domandarsi come potrà pervenirvi il popolo italiano, rimasto cattolico di educazione, di costumi, di mentalità, pur nelle espressioni di una democrazia verbale. Due vie si aprono, ugualmente assurde: o un ritorno puro e semplice all'idea cattolica, rinnegazione di tutta la nostra storia recente o la Riforma. Furono, queste, le idee madri di alcuni grandi del Risorgimento: dei neoguelfi alla Gioberti e di alcuni liberali dell'antica destra, quali Bertrando Spaventa e A. C. De Meis. La prima via poteva apparire come la più logica, come quella che si richiamava ad una tradizione secolare, ma fu smentita dai fatti; la seconda pareva inserirsi nella grande storia europea degli ultimi tre secoli e rendere omaggio al pensiero moderno, ma restò una pura ipotesi e un'indicazione accademica. La verità è che indietro non si torna. Entrambe le concezioni, la cattolica, e la protestante, rappresentavano residui ideali di un passato spento. È inconcepibile un moto religioso, di riforma spirituale, quando i tempi non lo consentono e quando gli uomini non credono più. Eppure lo spirito rivoluzionario è invincibile, la libertà immortale. Nulla può resistere all'orgoglio dell'individualismo. Se le classi dominanti non sentono nemmeno il bisogno di proporsi un problema di libertà per il fatto stesso che sono classi dominanti; se gli intellettuali possono aspirare, in nome della scienza, più che attraverso la scienza, ad una relativa emancipazione, le classi popolari non hanno a loro disposizione, nessun mezzo di affermazione, all'infuori di quello, che si richiama alla lotta di classe.

    Quando Carlo Marx affermò che l'emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori medesimi, pronunziò la parola della redenzione moderna e giustiziò la vecchia concezione democratica, che amava richiamarsi ai "doveri" delle classi superiori, alla filantropia, alle provvidenze caritative. La democrazia, così intesa, è l'ultimo travestimento della reazione borghese: è clericalismo sociale. Le moltitudini oppresse conquistano, attraverso la lotta per il salario, la propria libertà e la propria redenzione: imparano ad alzare la testa. Le suggestioni della vecchia democrazia astratta e dell'opaco sindacalismo vanno respinte come dei funesti tentativi per reprimere lo spirito nuovo, per soffocare in sul primo nascere la nuova volontà di potenza da parte di tutti gli oppressi e di tutti gli. esclusi dal regno della libertà.





    La coscienza liberale deve riguardare il movimento socialista come la coerente continuazione di quel primo moto ideale, che si richiama a Lutero, a Robespierre, a tutti gli eroi, a tutti i santi, che rovinarono l'architettura del vecchio mondo tirannico e concorsero ad elevare un edificio più grande e più ospitale al nuovo sole. Ammettere la libertà, tutte le libertà, ma con l'ordine, come largite dall'alto e respingere i modi attraverso i quali conquistano le libertà, non ha senso. O ne ha uno solo, quando si presupponga che la umanità è irrimediabilmente condannata a restare divisa in due parti irriconoscibili e nemiche: coloro che sono destinati a soffrire per sempre e coloro che per un senso di carità, sono chiamati a lenire le miserie per guadagnarsi il Paradiso. La società moderna non tollera questi equivoci. Essa sa che il mondo è una nostra costante creazione e che la volontà opera perfino i miracoli; essa afferma che la stessa verità è opera nostra, coronamento dello sforzo individuale. È la filosofia borghese: è il razionalismo assoluto. Ritrarsi davanti alle conseguenze pratiche e sociali di tali premesse è assurdo. Una società, che insegna queste verità da tutte le cattedre; un mondo ufficiale, che non esita ad affermare il panteismo, a distruggere le idee classiche del dualismo filosofico e della trascendenza, muove al riso quando si richiama all'autorità dello Stato, alla legislazione sociale, ai "doveri" delle classi "superiori" per tener a bada le masse lavoratrici, che avanzano sul suo stesso terreno e corrono leste sulle orme segnate dalla borghesia. La logica non può soffrire eccezioni: se la conoscenza è un "fare" anche la libertà deve essere un "fare"; se non esiste nella conoscenza, una verità trascendente, fuori di noi, non può esistere nemmeno una libertà, che non sia conquista. Sono gli imponderabili, che dànno un valore alla vita.


MARIO MISSIROLI.



    La Rivoluzione Liberale potrebbe onorarsi di pubblicare senza postille, come pensiero editoriale, questo mirabile studio che Mario Missiroli preporrà alla nuova ristampa de La Monarchia Socialista (Bologna, Zanichelli), e che prima ha voluto amichevolmente inviarci in segno di adesione al nostro lavoro e ai nostri propositi.

    Non si poteva esprimere più sinteticamente e potentemente il nucleo ideale della nostra crisi e la praxis che deve corrispondere al concetto dello Stato liberale e intransigente. Il punto di discussione è un altro: si può generalizzare l'esperienza anglo-sassone e invocare anche per noi una Riforma religiosa? Non è più realistico, in Italia, attendersi la conquista della religiosità laica da una praxis essenzialmente politica? Questo del resto è il presupposto del limpido discorso del Missiroli sulla lotta di classe e sul valore educativo del socialismo. E allora la domanda da porsi diventa un'altra: i1 marxismo non esclude il riformismo?

    La Monarchia Socialista non conduce forse decisamente allo scetticismo sulle varie politiche collaborazioniste? Non è la prima volta che Missiroli si pone questa domanda: ma noi saremmo lieti se egli volesse rispondervi ora per noi, nei termini in cui l'abbiamo posta.