RASSEGNA SINDACALE
Mentre a Genova i rappresentanti di trentasette Stati discutevano intorno ai molti ardui problemi la cui soluzione dovrebbe segnare un piccolo passo compiuto sulla difficile strada che condurrà pur tra ostacoli infiniti all'assestamento dei rapporti politico-economici internazionali, i delegati della Federazione Sindacale Internazionale convenuti a Roma da quindici diversi paesi e rappresentanti ventidue milioni di lavoratori organizzati prendevano in esame, partendo da premesse diverse ma con scopi in parte coincidenti con quelli che movevano l'azione dei diplomatici ufficiali, importanti questioni di vita sindacale molte delle quali però, solo indirettamente ad essa attinenti, nella formulazione e nella sostanza corrispondevano a quelle trattate nelle assise genovesi. I leaders operai infatti pur mantenendo la discussione, sì come si mantiene l'opera nettamente distinta da quella delle Internazionali politiche, oltre allo studio delle conquiste sindacali realizzate o sperate e delle condizioni delle classi lavoratrici nei singoli Stati dovettero necessariamente trattare di problemi che si inquadrano tra quelli che formano oggetto della politica internazionale e dai quali solo si vorrebbe ora con evidente esagerazione, far dipendere la possibilità di risolvere i molteplici interni come se il pacifico assetto dei rapporti fra gli Stati non fosse essenzialmente basato sulla solidità del loro ordinamento e sulla loro capacità di contribuire validamente alla produzione seriamente meritando il credito desiderato. Finita la guerra le organizzazioni sindacali, spinte da quelle politiche che ne fiancheggiano e troppo spesso ne soverchiano l'azione, hanno rivelato una decisa tendenza a partecipare alla discussione dei problemi internazionali cercando di influenzare le soluzioni proposte od attuate dai rappresentanti ufficiali dei singoli governi. Sarebbe stolto vedere nella loro volontà di agire anche in questo campo un errato indirizzo degno di biasimo giacché esse, conscie di rappresentare in ciascun paese gli interessi di larghe masse di lavoratori, avendo constatato nel corso dei più recenti avvenimenti come i rapporti fra gli Stati possano aver gravi ripercussioni interne sulla vita delle singole popolazioni, logicamente tentano di influire sulla stipulazione dei rapporti stessi affinché gli effetti da questi nascenti volgano a favore delle categorie di lavoratori organizzati. Senonché l'osservatore che segua con indagine spassionata lo svolgersi della vita dei sindacati può facilmente rilevare come questa loro azione politica si esplichi in un modo contraddittorio rispetto a quella esercitata entro i confini dello Stato per la conquista di miglioramenti economici, di un più alto tenore di vita per le classi operaie. La rilevata contraddizione si manifesta in ciò che mentre l'attività nazionale loro va, sia pur lentamente, portandosi verso una sfera in sempre più razionale rapporto colla realtà della vita economica, quella esercitata nel campo della politica estera (presupponente cioè rapporti che intervengono tra organismi di natura assai complessi quali sono gli Stati) si mantiene in una nebulosa intessuta di concetti direttamente procedenti dall'idea prima di internazionalismo, idea di per sé stessa priva di qualsivoglia contenuto reale. E ci spieghiamo: il modo con cui in questi ultimi tempi le organizzazioni sono venute importando le rivendicazioni operaie nella pratica quotidiana indica nell'indirizzo di quelle una serie di successivi ripiegamenti che prendendo origine da una ardita posizione iniziale segnata dalla volontà di realizzare un grande movimento politico-economico creduto per un momento possibile e facilmente attuabile, giungono alla ben più modesta risultante dalla incondizionata accettazione del principio marxista, già posto con leggerezza in oblio, il quale insegna come l'instaurazione di una società a base socialistica sarebbe solo possibile traverso una lenta evoluzione segnata dalla creazione di indispensabili presupposti etici ed economici. Pure non condividendo l'opinione che la società di domani debba essere necessariamente organizzata su basi collettiviste, giacché crediamo si possa giungere mediante una continua evoluzione ad uno stato di più perfetto ordinamento, per il bene comune, dell'attività dei singoli individui liberamente e spontaneamente manifestantesi ed esercitantesi senza gli impacci creati da quella artificiosa organizzazione che della società comunistica è indispensabile fondamento (e che vorrebbe con ben scarsa opportunità dare alla vita umana nell'ambito dell'azione economica impostazione siffatta per cui il fenomeno che avverrà e che é in gran parte sconosciuto sarebbe costretto entro vincoli predisposti sugli incerti dettami di una astratta ideologia) crediamo che il passo a ritroso compiuto in breve volgere di tempo dai sindacati verso atteggiamenti meno in contrasto coi bisogni immediati della ricostruzione economica sia avvenimento di reale importanza e capace di dare alle forze del lavoro un notevole incremento. Da esso appare infatti come le organizzazioni operaie non siano effettivamente chiuse cittadelle tetragone agli insegnamenti della vita ed irrigidite in un atteggiamento dogmatico e come questa loro sensibilità lasci supporre che esse, sempre sotto la spinta di vicende sovrane, saranno presto in grado di assumere quel posto che loro realmente spetta nella vita sociale, sapranno accettare il difficile compito di equilibrare con la solidarietà operaia la maggior potenza che il capitale può avere nei rapporti che intervengono fra i due essenziali elementi della produzione, rapporti che nel loro equilibrio continuamente variabile ma costantemente riproducentesi determinano la misura della distribuzione del prodotto. Ci sembra cioè che i sindacati, i quali nei fenomeni economici che si vanno attualmente svolgendo hanno trovato ragione di abbandonare, più o meno volontariamente, l'attitudine assunta nei riguardi della creazione del profitto e sostenuta sino alla negazione di questo, possano fare un passo più in là e divenire causa concomitante nella determinazione dello stesso dando prova di una notevole capacità di equilibrio, cessando di essere inconsci agenti dell'isterilimento del risparmio e in conseguenza della produzione avvenire. Sarebbe più ingenuo sperare che essi ammettano di aver raggiunto una posizione come effetto della involuzione compiuta: essi anzi tenteranno presumibilmente di nascondere la verità con movimenti in apparenza sempre più intransigenti ma in pratica anche un deciso diniego non toglierebbe il vantaggio che il loro nuovo atteggiamento procura al difficile problema della produzione. Volendo ricercare le cause determinatrici del fenomeno accennato bisognerebbe concludere che sull'irreale principio della lotta di classe come scopo a sé stessa (tale è in ultima analisi quella predicata dai partiti estremi) debba prevalere il fatto indiscutibile che capitale e lavoro sono irreconciliabili nemici tenuti avvinti dalla ferrea catena del dispotismo borghese per ottenere una sempre più altra produzione dipoi iniquamente distribuita, bensì due elementi fattivi ed indispensabili della produzione stessa, due forze, le quali debbono, traverso una lotta suscitatrice di naturali equilibri, dar luogo al sorgere degli elementi del benessere comune. Nel campo della politica internazionale questa "rettifica di tiro", per usare l'orribile espressione comune, questo movimento atto a riportare le direttive dell'azione sindacale in un piano più vicino alla contingente realtà non si é avverato. In esso dominano ancora sovrane idee semplicistiche orientate verso un'utopistica concezione della vita sociale: dall'assoluto disarmo delle nazioni all'idea recentemente riaffermata secondo la quale si vorrebbe imporre agli Stati un vero e proprio collettivismo economico, rivedendo con magnifici intenti umanitari la difettosa distribuzione naturale delle materie prime essenziali, si naviga in piena utopia. Tutto ciò ha in sé evidentemente qualcosa di anacronistico anche se vagliato al lume dell'ideologia socialista; adottiamone per un momento la terminologia e rileveremo che mentre nella vita interna si viene ammettendo come possibile la realizzazione del socialismo traverso una serie ininterrotta di formule intermedie che man mano andrebbero sostituendo gli organismi fondamentali della società capitalistica borghese attuale, in quella internazionale si vorrebbe raggiungere immediatamente (con trattati e convenzioni delle quali ormai si conosce il reale valore) un assetto socialistico che soverchiando i valori morali nazionali (che hanno pure un peso grandissimo) dovrebbero annullare quei motivi di rivalità che attualmente suscitano tra gli Stati l'occasione di urti sanguinosi. Ora, dato e non concesso, che l'organizzazione capitalistica sia causa unica di questi urti appare assai strano come si possa credere possibile l'instaurazione di un regime socialista di vita per gli Stati quando in ciascuno di essi si ammette possa ancora sussistere quel substrato economico e sociale che è ritenuto capace di creare i tanto deprecati fermenti. La ragione dello strano contrasto deriva dal fatto che dall'armistizio in poi la società è andata facendo nel campo economico una serie di esperimenti di organizzazione democratica con risultati ben poco brillanti dal punto di vista materiale ma efficacissimi forse per quanto riguarda l'insegnamento teorico e morale che in essi è contenuto. Sotto i colpi di maglio della realtà che non si può smentire e che non si può eludere con una legislazione più o meno affrettata e abborracciata (specialmente quando questa posi essenzialmente su un desiderio di pace sociale più che su sostanziali condizioni economiche della collettività) l'opera interna delle organizzazioni operaie è stata violentemente costretta a riprendere la posizione logica cui già abbiamo accennato. Nel campo internazionale invece l'attività loro si è potuta mantenere in una sfera puramente ideologica priva di portata pratica sì che ancora oggi il pensiero direttivo di essa può essere fatto derivare direttamente dai principi che si compendiano nel più vieto internazionalismo abolitore di frontiere. Naturalmente le organizzazioni operaie hanno ragione di sostenere che se il loro atteggiamento nel campo della politica internazionale è caratterizzato da un eccesso di idealismo e non può quindi raggiungere risultati tangibili immediati può sempre risultare utile agli effetti di una propaganda morale in pro della pace universale. È nostro scopo fare per ora delle semplici constatazioni di fatto e non giungere a conclusioni dalle quali implicitamente possano scaturire consigli che non verrebbero ascoltati; ma ci sembra che il valore negativo dell'opera compiuta dai sindacati in questo campo si riverberi sulla loro attività interna e la danneggi suscitando acerbe opposizioni che in ultima analisi vanno a detrimento degli organizzati. La rigidezza infatti con la quale essi trattano il problema internazionale li pone costantemente contro l'organismo politico del quale fanno parte e nel quale agiscono cosicché se in linea teorica si può vedere nell'interessamento portato dalle organizzazioni operaie ai problemi che lo Stato deve risolvere nei rapporti con gli altri la fonte di un utile impulso (in quanto viene allargata e migliorata la base su cui gli organismi dello Stato stesso, supremo regolatore e custode degli interessi della collettività stanziata sul territorio nazionale, devono venire svolgendo l'opera loro, giacché col crescere del numero delle premesse considerate aumenta la possibilità di raggiungere effetti che più si avvicinano agli ideali) in pratica l'azione sindacale va considerata come un vero e proprio ostacolo frapposto alla più ardita attività nazionale traducendosi in un elemento di debolezza per quegli organi che la devono immediatamente curare e realizzare. Né si deve credere questo effetto derivi solo da una falsa valutazione degli avversari giacché se la politica degli odierni organismi statali può sembrare talvolta ecceda certi limiti desiderati da un utopistico pacifismo ciò si verifica sotto l'impulso invincibile di determinate condizioni etiche, politiche ed economiche; in linea normale il costante atteggiamento negativo dell'azione sindacale (esempi in proposito sono superflui perché a tutti conosciuti) appare come determinato da un calcolo preconcetto fatto allo scopo di accumulare difficoltà contro una forma di attività dello Stato, che, regolata quasi sempre da profonde ragioni di reale interesse collettivo, se liberamente svolta col consenso e con l'appoggio illuminato di tutte le categorie di cittadini, lungi dal portare a quelle conseguenze catastrofiche che le organizzazioni operaie mostrano di temere, accrescendo il prestigio della Nazione traverso il maggior credito da essa ottenuto determinerebbe per le stesse classi lavoratrici la possibilità di godere, con un più favorevole assetto del mercato interno e dei rapporti con quello mondiale, un più elevato tenore di vita preparatore di ulteriori cause di benessere sociale. Milano, maggio 1922. BAUER RICCARDO
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