LETTURE

    Non credo di poter preludere meglio a una serie di brevi saggi sul liberalismo hegeliano di alcuni nostri pensatori del Mezzogiorno, quali i due Spaventa e il Fiorentino e il De Sanctis e il De Meis, che discorrendo del recente volume dedicato da Guido De Ruggero al Pensiero Politico meridionale nei secoli XVIII e XIX (Bari, Laterza, 1922). Il quale intende a presentarci il pensiero politico meridionale di quell'epoca secolare che va dalla pubblicazione della Scienza Nuova e della Storia civile del Regno di Napoli al 1848 nelle sue peculiarità essenziali e con tutte le sue caratteristiche di corrente autonoma, che solo dopo la crisi spirituale determinata dalla rivoluzione quarantottesca si viene a confondere col movimento nazionale propriamente detto.

    Due sono gli uomini che stanno alle origini di questo pensiero e proiettano in varia misura sopra di esso la luce emanata dalla loro speculazione e dalla loro stessa tempra personale: Vico e Giannone. Dei quali il secondo sembra più vicino alla realtà storica perché intimamente legato ai problemi della politica contemporanea, e più lontano invece da essa il primo, come assorto nella sua indagine metafisica e nella sua contemplazione dell'antichità mediterranea. Mentre è proprio il contrario: l'astrattismo giuridico-legalista del Giannone si risolve in un effettivo antistoricismo, là dove Vico è il grande padre dello storicismo moderno. L'influsso di Giannone è limitato a una sfera ristretta, come breve è la vita della scuola anticurialistica da lui discesa, che mira a creare una coscienza politica indipendente, ma senza determinazioni positive e concrete. Di fronte al filone giannoniano, si formano da Vico e su Vico Mario Pagano e la vera sostanza del pensiero di Filangieri e la mente più alta di tutte, Vincenzo Cuoco. Nel Cuoco e negli scrittori prerivoluzionari o rivoluzionari che gli fanno corona si può dire che il problema storico e il problema legalistico si facciano veramente politici: fondendosi nel vivo problema dello stato, della sua funzione etica, della sua intrinseca e spirituale validità. Ma di fronte al Russo o al Salfi, di cui è caratteristico, per intendere la specialissima forma in cui l'illuminismo francese fu assimilato da questi pensatori del Mezzogiorno (il Saggio di fenomeni antropologici occasione del terremoto famoso delle Calabria,) il Cuoco ci appare veramente in tutta la sua grandezza di superatore dell'astrattismo e del platonismo politici e instauratore di una nuova politica idealistica, che precorre mirabilmente il più elevato pensiero del Risorgimento.





    Dopo il Cuoco, la ricerca del De Ruggiero, che nel capitolo dedicato al pensatore molisano assume forse la sua forma migliore, si addentra nel periodo di preparazione e nella fase eroica del nostro moto d'indipendenza, e considera di preferenza il pensiero politico nel suo vivo contatto con l'azione. L'analisi dell'intervallo fra il Ventuno e il Quarantotto si svolge così con grande precisione e sobrietà, sebbene trascuri il pensiero conservatore (Bozzelli, De Sivo, ecc.), che ha pure qui la sua importanza e può dar luogo ancora una volta a interessanti osservazioni sui rapporti tra i politici meridionali e il pensiero francese.

    A questo punto l'esempio del Cuoco si moltiplica: e come in tutta la nostra storiografia prequarantottesca, la visione storica concreta diventa la forma preferita attraverso la quale si determina il pensiero politico speculativo. Questo pensiero per altro non riassurge ancora alle altezze del Cuoco per ciò che riguarda il problema dominante, quello cioè dell'unità nazionale. Di fronte ad esso, troviamo, abilmente tratteggiati dal nostro scrittore, i liberali "dell'ordine costituito" che riescono in fondo antiunitari quanto i conservatori puri e superstiti del sanfedismo; i liberali di idee più larghe, che vorrebbero l'unità, sì, ma come promossa e compiuta dal Regno di Napoli, - borbonica insomma, e non sabauda - e i democratici e i mazziniani, accumunati in un vago astrattismo. Ma il Quarantotto compie così la sua crisi, la catarsi e la chiarificazione di tutte queste coscienze: e il potente influsso culturale di Gioberti ne effettua il compimento, sebbene sembri favorire il particolarismo. Così, dopo quest'epoca, il pensiero meridionale, dice il De Ruggiero, si avvia ormai liberamente verso quella concezione nazionale unitaria che sarà poi la politica della Destra e si confonde con essa. Ci sono tuttavia le proteste autonomistiche dei giobertiani "ortodossi" e guelfi: a cui si oppone con immensa superiorità il pensiero degli hegeliani, su cui questo libro, dato il suo scopo e il suo tema, dà solo qualche rapido cenno finale, che attraverso Hegel valorizzano un G. più vero.

    Osserviamo per conto nostro però che questo giobertismo, cieco o chiaroveggente che fosse, non può essere preso come indice della estinzione speculativa del meridionalismo : anzi proprio per esso quest'ultimo vive ancora in tutta una generazione, e fa suo davvero Gioberti mentre la corrente settentrionale lo trascurava. Né assumere Gioberti significava abbandonar Vico: perché di Vico il più grande scolaro diretto è proprio Gioberti.

    E di ciò i nostri pensatori meridionali, quando assunsero lui per maestro, ebbero certo coscienza, sicuri com'erano di non abbandonare così la sua tradizione.


SANTINO CARAMELLA.