CETI MEDI E OPERAI
Guadagna più di me!Residuo ultimo di tutte le analisi che possiamo tentare sulla stragrande maggioranza degli appartenenti ai ceti medii urbani - impiegati di Stato o privati, professionisti, piccoli reddituari - è questo: l'odio verso l'operaio, verso l'uomo che porta la casacca, verso l'uomo che lavora negli impianti industriali o nelle manifatture. Questo odio è la vera scaturigine di quell'alone di simpatia che anche nei ceti medii urbani, persiste attorno al fascismo. Si è detto che la magistratura - categoria che rappresenta tipicamente i medii ceti italiani - è irriducibilmente filofascista; non si è stati esatti nell'espressione. La magistratura è irriducibilmente antioperaia. Chiedete agli avvocati come se la passino ora i ferrovieri, imputati di reati comuni, dinanzi ai tribunali. L'altro giorno assistetti per caso a un episodio giudiziario spaventevole: "spaventevole", non si può dire diversamente. Andava una causetta per furto: imputato, un operaio meccanico. Finite le deposizioni e la requisitoria, il Presidente chiede all'imputato: "Ma insomma, all'epoca del furto, quanto guadagnavate, voi?" "Quaranta lire", "Quaranta lire", replica il giudice agro agro. "Quaranta lire... Più di me!". E rivolto al Pubblico Ministero, amaramente: "Più di lei". E all'avvocato difensore: "Mi raccomando, avvocato: sia breve". L'avvocato era troppo esperto per non essere breve, quando la causa era già spacciata. L'imputato, si capisce, ebbe il suo bravo massimo della pena. "Guadagnava quaranta lire al giorno!..." "Allora, quella lì portava le calze di seta!" "Li ho veduti io dal fiorista, dal fruttarolo: un operaio, un giorno, comprò le rose a quattro lire l'una". L'elenco delle imputazioni fatte alla classe operaia si esaurisce in queste formule. Il "guadagnava più di me" è il sigillo definitivo di una condanna che l'avvocato, il professore, l'impiegato infliggono all'operaio. L'Italia, che nella storia dello sviluppo del capitalismo moderno - che è poi la storia della civilizzazione moderna - non presentò finora nessun carattere interessante e proprio ora vi fa la sua comparsa con questa sollevazione passionale e violenta che travolge precisamente quelle categorie, donde uscivano le capacità tecniche, le iniziative intraprenditrici, le categorie insomma che passavano per essere le portatrici dello spirito capitalistico; con questa sollevazione che procede rapidissimamente con la convulsione della leggenda ("le 100 lire al giorno degli scaricatori del porto": orrore e abominazione!!!) e con il contagio dell'adesione dei giovani (studenti) e delle donne (impiegate, donne di casa, grandi dame). Il fascismo é il movimento attivo di quest'odio: tutta la sua vitalità, cui tanti non vollero credere, tutta la sua buona fede, che alla maggioranza dei suoi militanti è stolto negare, hanno in questo odio il loro alimento. La definizione di questo odio non è facile. I professori dell'abbaco marxista se la cavano con la formuletta dell'"odio di classe": consentitemi di non usarla. Il fenomeno è un riflesso, sì, dello sviluppo capitalistico, di cui - in margine - risente il nostro paese: ma non me la sento di attribuire ai ceti medii italiani la patente di "classe borghese", e soprattutto non credo che una "classe borghese" come esiste davvero in Inghilterra o in Germania, possa "odiare" l'operaio. Del resto, un esame un po' più preciso di questo odio dei ceti medii ci persuaderà che esso ha dei caratteri addirittura arcaici. Per trovare apparizioni collettive che gli si possano paragonare, bisogna camminare indietro nella storia fin quando il primo telaio non era stato inventato, o lontano nel mondo fino ai paesi in cui il grano si macina con una pietra confricata sull'altra. Alla radice di questo odio c'è il rancore per i grossi salarii goduti dall'operaio, o supposti goduti dall'operaio. Dunque: avidità di guadagno, auri sacra fames. Werner Sombart nelle sue osservazioni sullo incipiente sviluppo capitalistico in Italia, notava che un grave ostacolo era rappresentato dalla poca coscienziosità dei lavoratori e dalla disordinata cupidigia degli imprenditori: due magagne gemelle, due forme dell'avidità di guadagno, diversissima dall'impulso al lucro capitalistico razionale. L'avidità di guadagno del cocchiere o del barcaiolo napoletano, o di qualunque culi asiatico che faccia un mestiere simile, si dimostra straordinariamente più penetrante, e soprattutto, più spregiudicata di quella di un cocchiere inglese: il che non vuole affatto dire che il cocchiere o il barcaiuolo napoletano abbiano una maggiore predisposizione a diventare buoni imprenditori o fortunati capitalisti. I nostri armatori della marineria a vela di Camogli o di Sorrento erano arditissima gente che avrebbe potuto ripetere il motto di quell'antico capitano di mare olandese: "Se c'è del guadagno andrei attraverso l'Inferno, purché Belzebù non mi bruci le vele": ma nessuno, che abbia un'idea dell'odierna industria degli armamenti, proporrebbe gli armatori camoglini, audaci abenteuer-kapitalisten, ad esempio di una razionale intrapresa marittima. Le parole sacramentali con cui il capitano iniziava il solito rapporto all'armatore: "economia e sollecitudine sono state le due massime che condussero a buon fine il presente viaggio" farebbero un po' ridere adesso: l'economia e la sollecitudine restano sempre qualità eccellenti per gli affari, ma l'armatore moderno sa che i dividendi della anonima dipendono, poniamo, dal mercato dei noli assai più che dalle tonnellate di carbone sparagnate dal capitano; e - se è davvero un armatore moderno - sul mercato dei noli concentra metodicamente, razionalmente, tutta la sua attenzione, e rinuncia a taglieggiare l'equipaggio. Ebbene: i ceti medii italiani hanno, confrontati con le classi borghesi straniere, la mentalità del barcaiolo napoletano o dell'armatore camoglino. La stessa disordinata avidità di guadagno: la stessa deficienza di spirito capitalistico, inteso come impulso al lucro razionale. Di qui, l'astio e l'invidia contro i grossi salarii degli operai: chi guadagna meno è incapace di concepire tutto l'ingranaggio capitalistico, è incapace di immaginare che ci possano essere degli imprenditori i quali se ne fregano di pagare largamente l'operaio, perché essi stessi larghissimamente e razionalmente lucrano. Il salario dell'operaio è staccato dal complesso del fenomeno capitalistico, che i ceti medii non comprendono, e, allora, naturalmente, appare una mostruosità. ...Eppure io ho i miei studi!Ma i grossi salari non suscitarono soltanto invidia: suscitarono una vera indignazione moralistica, come se fosse sconvolto l'ordine delle cose umane o divine. Questa indignazione è il secondo aspetto dell'odio dei ceti medii. Essa ha la sua formula di rito nel lamento, che nel dopoguerra, echeggia a complemento dell'altra: "Guadagna più di me - eppure, io, ho i miei studi!!!". In questa esclamazione che abbiamo sentito ripetere tante volte, ci sono sottintesi due concetti tradizionali: 1. - Che gli "studii" diano una specie di "legittima aspettativa" a decorosi guadagni; 2. - Che la dignità delle categorie che hanno compiuto gli studii sia offesa, da un rialzo di mercedi a chi non ha "studii". La "legittima aspettativa" che sorge dall'aver fatto "studii" è perfettamente paragonabile all'attesa della prebenda che sorge nel bramino indiano che ha letto il sacro libro dei Veda - ed è così a posto, materialmente, nella vita. C'è un rituale da seguire, per arrivare a godere della prebenda: e l'esecuzione del rituale assicura la prebenda. In nessun popolo dell'Europa occidentale, come nell'italiano, c'è, in fondo, una riluttanza cosi singolare a cambiare mestiere o professione. La morale professionale consiste, prima di tutto, a rimanere nella professione per cui si sono fatti gli "studii"; secondariamente, a veder riconosciute le proprie capacità dall'autorità politica, per mezzo di onorificenze, o di prebende. (Noblesse de robe nella Francia del '700, e curiali nel Regno di Napoli: ecco gli antenati diretti). Spingendo all'estremo questa morale professionale, si arriva alle condizioni dell'India, dove lo sviluppo capitalistico é impedito, non dal disprezzo fra le caste, ma dalla disistima che suscita ogni lesione del rituale; cioè dalla indignazione derivante da ogni innovazione tecnica o economica, che consenta una rapida formula materiale a chi invece deve avere fortuna secondo le vie tradizionali. Pensandoci bene, vediamo che l'ideale dell'operaio, come se lo immaginano i medii ceti italiani, corrisponde perfettamente all'operaio indiano come lo adoperano gli industriali inglesi delle Indie: un lavoratore d'occasione, un perpetuo avventizio. Poca paga, e scarso rendimento. Appena si ha tanto in saccoccia da fare una vita meno peggio al villaggio, ci si ritorna: l'industriale rimpiazzerà con un altro. (Questo, nel linguaggio ufficioso degli elogiatori delle virtù della stirpe, si chiama anche l'attaccamento dei lavoratori italiani alla patria lontana). Ecco l'operaio di cui si è sicuri che non offenderà mai la dignità delle categorie che, per guadagnare, hanno fatto i loro "studii": che cioè possiederà quella speciale forma di disciplina sociale che sta a cuore ai professionisti, agli impiegati ai giudici, a coloro insomma che hanno letto il sacro libro dei Veda all'Università o al Liceo o all'Istituto tecnico. Naturalmente, questo paragone dei ceti medi italiani con le categorie prebendarie dell'India non esaurisce la configurazione dei ceti medii italiani. Ma bisogna ricordare questo estremo opposto alla civilizzazione capitalistica, che è l'India, per rendere evidente non una inesistente affinità di due gruppi sociali (ceti medii italiani e caste dotte governanti indiane) ma tutta la lontananza del gruppo che ci interessa (ceti medii italiani) da una classe "borghese" europea. L'odio contro l'operaio ha, dunque, un carattere precapitalistico con delle venature o da mercanti, o da curiali. Il movimento fascista, che ne trae origine, ne rimane viziato da una formidabile contraddizione rispetto alla civilizzazione capitalistica. Reazione inglese.Il genuino stato d'animo di una "classe borghese" verso il proletariato, specialmente in periodi di crisi, in periodi in cui la disoccupazione spinge alla superficie visibile della società le miserie profonde, non è l'odio, come oggi lo nutrono i ceti medii italiani: ma il disprezzo. È il disprezzo verso il povero, soprattutto, ma in genere verso l'operaio, che noi troviamo là dove una classe borghese si è saldamente costituita, come in Inghilterra fin dalla prima metà del secolo scorso. La "respectability" borghese implicava un disprezzo verso gli appartenenti alle classi bisognose, che, più o meno, versavano in strettezze: tutti i grandi stranieri che scrivono e testimoniano sull'Inghilterra del 1830-60 (Herzen, Engels, Fontane, Ledru Rollin) restano impressionati dallo scherno che circonda la povertà, dalla assoluta incapacità dei borghesi inglesi di credere che sotto la casacca dell'operaio possa battere un cuore di vero gentleman. La "umanità" dei rapporti verso il prossimo è pressoché soffocata: basterebbe ricordare tutti gli avvilimenti che la filantropia borghese ha imposto nei paesi più progrediti, ai beneficati: basterebbe ricordare che, fino a qualche anno fa, i ragazzi degli orfanotrofi di Amsterdam erano condotti alle funzioni religiose vestiti con un giubbino metà nero e metà rosso o metà verde e metà rosso: qualche cosa di molto analogo alla toilette dei burattini e dei forzati. Si disprezza il povero, ma non lo si odia. Questo rapporto sentimentale del borghese verso il povero sorge dal profondo della rivoluzione religiosa protestante, per cui l'amore del prossimo si manifesta in prima linea con l'adempimento del lavoro professionale, cioè con il disimpegno integrale ed esauriente del lavoro di ciascuno, sia salariato od imprenditore: diretto alla trasformazione razionale del mondo, cioè alla conquista capitalistica del mondo. Finché l'operaio è strumento mal pagato e mal vestito, il borghese lo disprezza: quando, per qualsiasi congiuntura, l'operaio è pagato bene, non è più il "povero", lo rispetta. Questa concezione brutale e spregiudicata dei rapporti fra ricco e povero è il segreto della sanità anglosassone, è il segreto della sicurezza con cui i popoli anglosassoni procedono per ignes, attraverso il fuoco della civilizzazione capitalistica, senza la formidabile palla al piede costituita dall'odio borghese verso le categorie operaie. Da ciò deriva la squisita sensibilità sociale, la estrema sicurezza dei mezzi e la precisa determinazione degli obiettivi, che è propria dei grandi movimenti reazionari inglesi. In Inghilterra, dove esistono veramente uno sviluppo capitalistico e una classe borghese, non si perde il tempo a bastonare l'operaio, si procede a colpire l'industria. La violenza ad personam appare, com'è, un espediente inutile: si ricorre alla filantropia. In una società fondata sullo sviluppo capitalistico, sull'impulso di lucro razionale dell'imprenditore, la reazione non e mai stata cieca: ha sempre marciato con passo sicuro, dritta alla méta. "Reazione," in senso proprio è questo: "colpire quello sviluppo e quell'impulso, colpirli in nome della tradizione, in nome della pietà avìta, in nome della religione, delle convenienze, della filantropia: ma colpirli, paralizzarli". Questa è reazione nel suo significato proprio. In Inghilterra, il suo tentativo classico si ebbe verso il 1850: quando la filantropia conservatrice riuscì ad imporre il Ten Hours Act (Atto delle dieci ore di lavoro). Non erano i rappresentanti dei lavoratorori che davano questo primo involontario avviamento alla legislazione sociale: erano i gran signori, i Tory, era Lord Shaftesbury, il tipo ideale dell'artistocrate, secondo Emerson: era Dickens, l'uomo che rimpianse sempre la old merry England, la vecchia allegra Inghilterra di Mr. Pickwik. Il movimento reazionario di Shaftesbury e di Dickens era tipicamente reazionario per questo: con la protezione filantropica degli operai, volevano colpire a morte lo sviluppo industriale del loro paese, volevano rimandare alle campagne le masse inurbate volevano mortificare l'iniziativa degli imprenditori, volevano liquidare l'industria inglese. Con quel fiuto fine, che solo la esperienza di una grande aristocrazia può dare, Shaftesbury comprese che sviluppo ìndustriale voleva dire, prima o poi, attacco socialista: e reazionario dei più geniali e potenti che siano comparsi nella storia inglese, non pensò mica di far bastonare o di far mitragliare gli operai, anche allora sovversivi, ma mirò alla paralisi della macchina capitalistica, in nome della pietà umana, come Dickens, nel suo grande romanzo Hard Times vi mirò in nome della bellezza e della piacevolezza della vita di un tempo. Se a Shaftesbury, se a Dickens, se a qualcheduno dei tanti ricchi inglesi che li seguirono avessero proposto di agire materialmente contro gli operai, così avrebbero risposto: "A che cosa serve!". Perché da inglesi reazionari sì, ma inglesi, avevano vivo il senso del disprezzo verso il povero, ma mancava completamente in essi l'odio per il povero. Reazione italiana.Ritorniamo ai ceti medii italiani. L'astio contro la classe operaia dà luogo ad una reazione spicciola, irritante, isterica, che non può condurre al colpo di Stato - ma il colpo di Stato non vuol dire niente, non risolve niente. L'odio contro la classe operaia è, in realtà, una ribellione contro il regime di sviluppo industriale importato in Italia da trenta anni, e a cui la borghesia italiana si è dimostrata impreparata e immatura - ma ribellarsi contro le vere vittime della grande produzione, i salariati, è stolto e vile. Se i medi ceti italiani, per ragioni tradizionali, per una loro mentalità precapitalistica, bottegaia e prebendale, non possono tollerare la presenza e lo sviluppo di una classe operaia, la conseguenza logica e coraggiosa veramente e virilmente reazionaria, non è che una: far tabula rasa con la grande industria italiana, risospingere l'Italia indietro com'era prima del decennio 1890-900, rinunciare ad una produzione industriale per il grande mercato internazionale e per il mercato interno. Se i ceti medii italiani si sentono a disagio nel macchinismo della produzione manifatturiera fino a trovare la presenza sola di un operaio "provocante" e "indisponente", non è con la classe operaia che devono prendersela, ma con chi l'ha evocata sulla scena, con chi la adopera come strumento. Bisogna mirare all'evocatore nascosto del malefizio, alla ristrettissima categoria di veri capitalisti - intimamente antifascisti - che spinti dalla febbre del lucro capitalistico si preparano a ricreare stasera, domani, dopodomani, sempre, quegli aggruppamenti operai che i fascisti hanno "conquistato", quelle organizzazioni operaie che i fascisti hanno stamane disperso. La ribellione e il colpo di stato devono innestarsi su qualche cosa di più potente, un programma di politica anti-industriale, di cui i pochi e solitarii liberisti intransigenti italiani hanno già da tempo preparato il programma minimo. Questa sarebbe "reazione" nel significato in cui l'esperimentò l'Inghilterra e gli altri paesi con uno sviluppo capitalistico autonomo e vivace, non di importazione: con una classe borghese ben preparata; e quindi con dei reazionari lungimiranti e sicuri di sé, come si conviene ai paesi forti e serii. Ma i nostri ceti medii, i quali si esauriscono nell'"odio" verso il salariato, dimostrano per ciò stesso di non costituire una classe borghese fortemente e seriamente reazionaria. Prendendosela con gli operai e basta, essi dimostrano semplicemente la loro immaturità a vivere in un paese avviato coartatamente alla grande produzione industriale, e la loro impotenza a trasformarlo: cioè dimostrano la loro intima infelicità. Il fascismo, espressione politica di quei ceti medii ne riflette tutta la crisi: bastona gli operai, e va in brodo di giuggiole dinanzi alle declamazioni sull'espansione industriale della Terza Italia, e simili temi retorici. La sua reazione è superficiale, torbida, convulsionaria: ma non attinge dalla profondità della tradizione, non sa ammantarsi e non sa valersi di tutte le infelicità che un affrettato e imposto sviluppo industriale ha accumulato in Italia, come espedienti validissimi per i reazionari veri che non sono venuti. Il fascismo fa le passeggiate militari nelle città industriali e rispetta venerabondo la grande industria. La reazione è così troncata, e compare in tutta la sua povertà e in tutta la sua sterilità. I ceti medii italiani, di fronte alla grande industria, si attengono ancora all'ideale della "vita temperata" e dello "stato pacifico" di due secoli fa, a questa intima tendenza antiindustriale non può venir fuori, perché è sotto una doppia crosta, robustissima, costituita: 1. da una moda letteraria e accademica per l'"espansione industriale", per la "valorizzazione del lavoro italiano", per lo "sviluppo delle nostre energie latenti", ed altre cose del genere; 2. dal fatto (indiscutibile) che la grande industria, quale è stata trapiantata in Italia presenta dei caratteri di Abenteuer-Kapitalismus, di pirateria che piacciono molto, e piacciono molto precisamente, e impongono soggezione, perché i ceti medii italiani non sono una " classe borghese" abituata ad aver da fare con dei veri imprenditori, e a diffidare degli avventurieri, dei falampi, del "projectistes". Dilettantismo industrialoide.Sull'efficacia della moda letteraria ognuno può accertarsi direttamente. La "Lega Navale", la "Lega Italiana" e tutta le associazioni minori, per esempio, ne offrono prove infinite. I bollettini della "Lega Navale" sono una miniera di documenti sullo stato d'animo dei ceti medii. Società anonime cooperative con azioni da 200 lire ciascuna... per dare incremento allo sviluppo dell'Italia sul mare; centinaia di ordini del giorno votati da studenti, impiegati, avvocati, per dirimere conflitti marinari... e salvare la marina; preoccupazioni e batticuori di ragionieri lombardi perché si varino "molte navi" affinché l'Italia sia "grande sul mare": tutta roba inutile ed innocentissima, di cui i veri pochi uomini d'affari che si occupano della marina sono i primi a ridere. Il recente congresso della Lega Italiana a Roma è stato una vera tornata accademica, e quella che vi partecipò è tutta gente che vuole "valorizzare", "sviluppare", "espandere": ma le sue idee della attività nazionale trovano il loro perfetto interprete in V. E. Orlando, che si fa loro a narrare e a proporre l'esempio dell'espansione commerciale di Firenze, ai tempi gloriosissimi - e barattieri - dell'arte della lana... quando ancora non esisteva nè un imprenditore nè un salariato nel significato moderno dei due termini! La Lega Italiana dovrebbe rimanere celebre nelle cronache dell'industrialismo accademico, per gli ordini del giorno vibratissimi votati durante la Conferenza di Genova, quando le menti dei suoi soci furono percosse dallo spavento... di restare - orrore! - senza petrolio. Fu allora che la presidenza mandò a Schanzer telegrammi lancinanti: e fu allora - se le mie informazioni sono esatte - che il ministro Schanzer chiedeva disperato al comm. Francesco Giannini: "Se non riusciamo ad avere almeno una lettera di Lloyd George, come farò à presentarmi al Parlamento? Che cosa mi dirà tutta questa gente, per il petrolio?". Il petrolio del Caucaso, il carbone di Eraclea, e in genere le "materie prime": ecco le ondate che percorrono, ad intervalli variabili, la superficie di tutta una folla di oneste persone, che se ne avessero i mezzi si guarderebbero bene di impegnarsi nell'industria dell'armamento e in concessioni petrolifere. - Gente che non è mai stata una volta in aeroplano, nè in un campo di aviazione, sarà fieramente allarmata dalla notizia che taluni provvedimenti o negligenze del Governo compromettono "l'avvenire aereo della nazione": e una "lega aerea" interverrà d'urgenza ad agire "perché l'Italia abbia libero il suo cielo". - La Leonardo da Vinci deve essere riattata "per dimostrare la valentia dell'ingegneria italiana": e, per tacer del Senato, negli stessi collegi professionali si trovano dei teorici che ne fanno, disinteressatamente, un punto di onore. - Le fiere campionarie messe su da un "projectiste" d'ingegno, come Umberto Notari, diventano spedizioni di argonauti che vanno a portare il vello d'oro delle industrie italiane: e si passa per cervelli gretti e privi di iniziativa se si arriva a mettere in dubbio che turchi e lapponi aspettino proprio la Trinacria per comprare la roba in Italia. - Vecchi relitti di propaganda futurista, antichi orecchiamenti di "dinamismo", scarti della poesia della macchina e dell'officina, tutto ritorna a galla, tutto fa brodo: e così qualunque forma della attività industriale si presta a questa esaltazione letteraria, perpetrata nella massima buona fede, cui la folla degli innocenti amatori della "vita temperata" arriva attraverso schemi reclamistici e metafore slombate: e l'industrialismo accademico dei medii ceti italiani trova tutto degno di patriottica attenzione, dal "carbon bianco"... al sughero di Sardegna. ;Questo dilettantismo industrialoide dei medii ceti è la massima forma di interessamento permessa da tradizioni curiali e prebendali, da una cultura pseudo-umanistica che sola, apre l'ingresso nella carriera agli uffici e ai "posti", e insieme stampiglia socialmente i suoi adepti con la qualifica di "persona che ha fatto i suoi studi", persona per bene cioè che ha diritto ad avere un trattamento decoroso in modo da poter mantenere la distanza rispetto alla "bassa gente". Abenteuer-KapitalismusMa la grande industria impone soggezione ai medii ceti perché è trivellatrice. L'assalto all'erario, che in altri paesi produrrebbe larghi movimenti di opinione pubblica, qui finisce per produrre una larga ammirazione per gli Abenteuer-kapitalismus che lo conducono con fortuna. Si trova che sono "furbi", "accidenti", "sacramenti" - o, addirittura, si trova che sono valentissimi imprenditori: il che è assolutamente falso. Nel carattere composito dell'imprenditore moderno (in cui si riuniscono i tratti distintivi del conquistatore del commerciante) il pubblico italiano è sempre disposto ad apprezzare i tratti del conquistatore più degli altri: e siccome quasi tutte le grandi figure dell'industria italiana hanno avuto precisamente più l'audacia del colpo di mano protezionistico che la saggezza dell'organizzatore, i medii ceti italiani sono sicuri che anche l'Italia ha prodotto una classe industriale di primo ordine: e chi ne dubita è "antipatriotta". Il trucco protezionistico è considerato come un mezzo affatto naturale di far progredire una industria: non si pensa, non si è capaci di pensare che, di fronte alle genuine capacità dell'imprendimento moderno, questo modo di avvantaggiarsi denota, oltre a tutto, una speciale forma di pigrizia, una tendenza alla prebenda: e nella classifica dei mezzi di arricchire, potrebbe stare assai bene vicino a quei tre famosi, che erano indicati nei libricini del Rinascimento: 1. - La cerca di tesori; 2. - L'accalappiamento di eredità; 3. - La clientela: rendersi persona grata presso qualche ricco cittadino, allo scopo di ricevere una parte delle sue ricchezze. Gli industriali italiani si rendono persone grate presso lo Stato, e ricevono delle sovvenzioni e delle tariffe protettive. I medii ceti italiani ammirano questa audacia venturiera, e non sospettano neppure che essa non è affatto "capitalistica", e che quegli uomini sono assai più vicini allo "speculante" e al "condottiero " del '900 che ad un intraprenditore inglese o americano. Ad accentuare, nei medii ceti italiani, questa stortura di discernimento, si è aggiunta l'orticaria militaresca, per cui la "conquista di nuovi mercati" è concepita mitologicamente come una specie di conseguenza obbligatoria delle vittorie guerresche. L'"amore di terra lontana" sospira in tutte le relazioni dei Consigli di amministrazione, e diventa addirittura appassionato nei discorsi di coloro - e sono legione - i quali credono che poiché gli italiani hanno vinto sul Piave, in Colombia, in Arabia e alla Nuova Guinea non aspettino altro che di essere " conquistati", "penetrati" dalla produzione italiana! E per chiarire questo stato d'animo, basterà una citazione. Scriveva tempo fa l'on. Meuccio Ruini, ex ministro delle Colonie, a proposito delle Colonie Portoghesi: "Vi furono due anni fa, iniziative di gruppi industriali e bancari italiani per un accordo col Portogallo per lo sfruttamento dell'Angola, che offre grandissime risorse agricole e, sovra tutto, di materie prime industriali. Gli studi ed i primi passi non ebbero seguito, anche perché il Governo italiano non si mostrò entusiasta dell'idea. Senza voler esaltare manie imperialistiche, certo è che sarebbe stato opportuno per l'Italia - che non ha alcuna finestra sull'Atlantico - una penetrazione nell'Angola". In queste poche righe, c'è tutto: le "materie prime", "la finestra sull'Atlantico" la "penetrazione". La mitologia è al completo: ed è un ministro di ieri e di domani che parla! "Sarebbe stata opportuna una penetrazione nell'Angola... " Chissà perché poi nell'Angola? Forse perché l'Angola è del Portogallo, e - senza voler esaltare manie imperialistiche - si crede che sia facile "conquistare nuovi mercati", "penetrare", "espandersi", quando si ha da fare col Portogallo .... Angola.. materie prime ....finestra sull'Atlantico... Possibilissimo che di qui a due mesi il caucciù di Angola apparisca indispensabile all'Italia come il petrolio del Caucaso e il carbone di Eraclea. È possibilissimo che qualcheduno proponga di saltar addosso... al Portogallo, che qualche ministro lanci là, alla platea, le frasi aspettate sui "vitali interessi", e che si faccia la gesta d'oltremare. Sicuro: noi siamo sempre in procinto di partire per una gesta di oltremare. I medii ceti italiani hanno dell'espansione industriale di un paese l'identica idea che ne avevano i pisani o i genovesi del '300: qualche cosa di composito fra i trucchi dei mercanti, la guerra di corsari, la ripartizione della masserizia predata. Conclusione.I ceti medii italiani impreparati a sopportare lo sforzo e la tensione, imposti dall'attuale stadio di sviluppo capitalistico, se la pigliano con la classe operaia. Non riescono, però, ad essere risolutamente anti-industriali, cioè ad essere intimamente reazionari, appunto perché non sono una classe borghese moderna: e perché, quindi, sentono vivamente l'influenza di un industrialismo da letterati e da condottieri. Perciò il loro destino è stato e sarà in questa alternativa: O soffrire umiliazioni e privazioni nei periodi di più fittizia attività industriale, durante le riprese che si fanno sentire nella artificiale grande industria italiana, come riflesso e contraccolpo delle grandi "corse all'oro" internazionali; O vendicarsi contro gli operai, "sfogarsi", nei periodi di grande crisi. Il fascismo urbano, il fascismo delle regioni industriali è l'espressione di questa persistente e fatale infelicità. GIOVANNI ANSALDO.
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