STUDI SUL RISORGIMENTO
La filosofia politica di Vittorio Alfieri 5.V. - Politica anti-monarchica.Parallela alla negazione del cattolicismo si svolge, come già s'è intravvisto, la critica alla tirannide: anzi vi è tra i due elementi una sostanziale unità. Checché sostenga di diverso lo Scandura tra monarchia e tirannide non v'è' differenza per il pensatore astigiano. Il costituzionalismo non gli offre garanzia di sorta perché egli non si è mai fermato a studiare con giuridica sottigliezza il problema delle forme di governo. Sotto lo stimolo del giusnàturalismo egli è tratto a pensare la storia secondo un principio schematicamente dualistico: il trionfo della libertà e, antitetico con esso senza possibili mediazioni, il dominio della tirannide . Ma se il punto di partenza resta il giusnaturalismo, la statica concezione di Rousseau e l'incapacità sua di comprendere l'organismo sociale è superata dal nostro in una visione trascendentale che riconduce libertà e tirannide a un principio pragmatistico e a una dinamica volontaristica. Dove la volontà è autonoma, dove il principio di ogni miglioramento e svolgimento è in noi stessi: quivi esiste libertà; da una stessa giustificazione, da una stessa base morale nascono dunque per l'Alfieri libertà individuale e libertà sociale. Si trova tirannide contrapposta a libertà, dove all'autonomo svolgimento che ha in sè il suo fine e il suo principio si sostituisce e sovrappone un'esterna gerarchia che negli uomini veda uno strumento per la soddisfazione di limitati interessi da cui tutti, eccettuato il tiranno, restano esclusi. Non si attenda a questo punto dall'Alfieri la giustificazione che lo storico può e deve dare della tirannide, esaminando realisticamente le cose. Studiare nel '700 la questione da un punto di vista storico significava schierarsi già inizialmente coi fautori della tirannide. La forza dell'Alfieri dunque è nella sua debolezza. Rinunciando al realismo politico egli conquista una posizione di realismo filosofico. Il profeta si libera dal suo tempo perché non lo capisce (o meglio non lo capisce da politico): in questo paradosso c'è la definizione più rigorosa di tutte le torbide divinazioni dei precursori. L'Alfieri nega la tirannide perché più forte dell'esigenza sociale freme in lui il represso ardore di una attività individuale, più forti di tutti i motivi democratici lo animano gli impulsi anarchici e aristocratici della sua esuberanza e della sua concreta coscienza creativa. La sua critica è superiore all'enciclopedismo e al liberalismo sensistico. Benché la sua fraseologia sia ancora sostanzialmente quella dell'utilitarismo, egli tende ad elaborare una concezione precisa della società come necessario organismo ideale, e dello spirito come socialità; e si guarda dal ricader nelle incoerenze dei democratici che per un risultato edonistico erano pronti ad accettare trascendenza e dispotismo. L'Alfieri fu conscio talvolta dell'astrattezza che caratterizzava la sua critica e allora, benché privo di cultura e di esperienza storica, seppe elevarsi a visioni sintetiche di potenza vichiana. La coscienza dell'inesauribilità dello spirito in lui limpidamente teorizzata gli suggerì idee luminose sulla relatività delle cose umane che temperano e arricchiscono nella sua considerazione della storia il rigido sistema iniziale dell'eutusiasmo immanentistico. "È il vero che nessuna cosa poi tra gli uomini riesce permanente e perpetua: e che (come già il dissero tanti savi) la libertà pendendo tuttora in licenza, degenera finalmente in servaggio; come il regnar d'un solo pendendo sempre in tirannide, rigenerarsi finalmente dovrebbe in libertà". (Della Tirannide 1. 1 cap. I). Al primo semplicismo della concezione dualistica è qui sostituita una lucida visione di concretezza dialettica da cui l'Alfieri si affretta a dedurre una norma di pratico operare: "...ogni uomo buono deve credere e sperare che non sia ormai lontana quella necessaria vicenda per cui sottentrare alfin debba all'universale servaggio una quasi universal libertà" (id.). Qui dal mondo metafisico s'è passati a una concreta situazione storica e a questa significazione relativa si devono specificamente commisurare quelle affermazioni che soltanto per maggiore efficacia e quasi per artificio di scrittore si enunciano come se rivestissero un valore assoluto: per non aver posto mente a ciò gli interpreti dell'Alfieri si sono perduti in tanti equivoci e incertezze. C'è un'altra giustificazione della tirannide, di carattere decisamente metafisico, cui l'Alfieri accenna appena, ma che avrebbe dovuto far meditare i critici frettolosi sulla complessità e sulla feconda inquietudine del suo pensiero. Nel primo libro del trattato Della Tirannide abbiamo visto il tiranno considerato come colui che sa conoscere gli uomini e perciò valersene. Tutto lo spirito del primo libro Del Principe e delle lettere anche se s'intende come satira e sarcasmo à necessariamente fondato su una premessa teoretica che nella tirannide riconosca qualcosa di praticamente e teoricamente valido. E non siamo noi i primi a notare che attraverso le tragedie la figura del tiranno s'impone e opera come realtà ideale da cui l'Alfieri é persino affascinato quando nel tiranno c'è forza e in chi gli soggiace debolezza. Egli voleva per i suoi uomini di libertà la tempra ferrea dei suoi tiranni e sentiva in se i due eroici furori della libertà e della forza sino a voler impersonare insieme quando recitava egli stesso il suo Filippo le due figure antitetiche di Carlo (libertà) e di Filippo (tirannide). Tuttavia esigenze estetiche e sentimentali sono crudelmente imperiosamente soffocate dal prevalere di una sola esigenza morale: la negazione della tirannide acquista il pathos della negazione dell'apostolo. Reciso contro ogni dubbio l'Alfieri scultoriamente definisce: "La parola Principe importa : Colui che può ciò che vuole e vuole ciò che più gli piace; né del suo operare rende ragione a persona; né v'è chi dal suo volere il diparta, né chi al suo potere e volere vaglia ad opporsi". (Del Principe e delle lettere, 1. 1 cap. 2). "E quindi o questo infrangi legge sia ereditario o sia elettivo, usurpatore o legittimo; buono o tristo; uno o molti; a ogni modo chiunque ha una forza effettiva che basti a ciò fare è tiranno". (Della Tirannide, libro I, cap. 2). Le parole sottolineate mostrano a chi parli di fonti del pensiero alfieriano quale abisso vi sia tra queste affermazioni e la dottrina del Montesquieu. Riprende l'esame delle seduzioni estetiche che su lui aveva esercitato la figura del principe; ogni incertezza è stroncata: si dimostra inesorabilmente che il principe considerato come conquistatore, come legislatore, come mite governante è sempre vituperevole e inutile all'umanità. Gli esempi son scelti tra i più efficaci: implacabili sono le "stroncature" di Alessandro, di Ciro, di Tito. Conclude: la tirannide è l'antitesi del vivere umano: "se anco da noi tutti non si dovesse aver mai altri principi che dei simili a Tito, ne saremmo quindi noi forse maggiormente uomini? nol credo; poiché i Romani non ridivennero maggiormente Romani sotto Tito, né sotto Traiano, né sotto gli Antonini, di quello che il fossero sotto Augusto, Tiberio e Nerone". (Il Principe e le Lettere - libro II, cap. VIII). Dai primi motivi sentimentali ed egoistici la critica s'è trionfalmente ampliata e integrata sino a diventare una decisa affermazione morale: la polemica contro il monarca si trasforma in negazione assoluta del dogmatismo politico: il problema s'arricchisce di un intimo contenuto pedagogico e il liberalismo è ricondotto ai suoi fondamenti filosofici. Gli sviluppi empirici, le parentesi quasi autobiografiche, gli stessi particolari erronei non devono esser esaminati ingenuamente come tarli, ma accettati in quanto illuminino ed esprimano con approssimazione simbolica il coerente edificio sistematico della sua divinazione immanentistica. Anzi la casistica pratica che si deduce immediatamente dalla teoria dimostra, in un secolo di sensismo, l'irreducibile aspirazione a una assolutezza filosofica: non solo si combatte il cattolicismo, ma lo si vuole sostituire integralmente. Con una logica serrata l'Alfieri deriva dalle sue premesse l'esigenza del tirannicidio: il suo immanentismo essendo fortemente legato a motivi di immediatezza spirituale e di ingenuo impulso creativo è naturale che egli contrapponga all'individuo l'individuo, al tiranno la passione del regicida. V'è in questa correntissima logica astrattismo e inesperienza politica: ma è quell'inesperienza che fonda le nuove esperienze. E qui è il luogo di intendere e chiarire quel concetto apparentemente contraddittorio e assurdo - che si ritrova nel Panegirico a Traiano, e qua e là in frammenti delle altre opere - che il solo principe degno di rispetto sia quella che dona la libertà ai suoi sudditi rinunciando al dominio. Inteso il concetto grossolanamente si tornerebbe in pieno estetismo umanistico, e alla visione della politica come coscienza e organizzazione di coscienze si sostituirebbe il gesto esterno, si porrebbe come fecondo di conseguenze universali un atto limitato, isolato, scisso dalla storia. Non certo ad una libertà donata aspira l'Alfieri; la sua libertà deve esser frutto di inesausta volontà e di laboriosa iniziativa. Nel Panegirico dunque non v'è n'è un programma politico, né un ideale: si esprime la crisi di coscienza del tiranno, si mostra in lui il doloroso contrasto tra la sua qualità di tiranno e il pensiero che gli deve nascere in cuore naturalmente appena si senta uomo. Così non v'è liberazione per lo spirito del despota fuor che in questo ideale suicidio; la tragedia ultima colta dalla fantasie dell'artista e la riprova rigorosa dei motivi di critica teorica, L'Alfieri enumera tre modi di origine della tirannide: 1) la forza, 2) la frode, 3) la volontà dei sudditi mossi da corruzione Monarchia e dispotismo non si distinguono perché il monarca moderato essendo tale per suo arbitrio è in ciò tiranno e i sudditi, anche se non sono malmenati, sono schiavi. Ricondotto il criterio della distinzione tra tirannide e libertà alla possibilità di sviluppo dell'attività autonoma dei cittadini, la presenza di un dominatore che attinga la sua autorità dall'esterno è di per se stessa, esclusa ogni considerazione sulla benignità e ferocia dei risultati, una limitazione, una diminuzione di spiritualità per chi gli sta di fronte e gli è sottoposto. L'esigenza dell'autorità in un mondo libero si attua per un processo dialettico a cui tutte le forze partecipano, sì che il dominatore serve ad un tempo ed è espressione e simbolo, di tutta la realtà. La monarchia assoluta o moderata, asiatica o europea é sempre un insulto a questa legge e la sua benignità non è che un nuovo peccato di ipocrisia. Se c'è in questa critica un torto esso non dipende da altro che dall'arbitrio con cui se ne è pensata l'esegesi. Il processo storico ha dimostrato che la monarchia, essendo realizzazione empirica di un concetto, e perciò sottoposta all'imprevisto della praxis, può rinunciare alla sua iniziale giustificazione teorica senza rinunciare a se stessa. La logica dei concetti non è la logica della pratica. Nella dialettica storica la libertà non esita mentre si afferma a servirsi degli istituti stessi che sono sorti dalla sua antitesi. Il costituzionalismo giuridico ha rivelato nel corso di un secolo le sue eccellenti capacità di mediatore e ha dato le garanzie necessarie nella conciliazione. Questo mondo di realizzazioni particolari e di limiti empirici si sottrae al dominio della profezia. Il profeta è il filosofo dell'iniziativa, della forza che si esprime rivoluzionariamente, il teorico di oscure volontà e di inesauribili impulsi spirituali. Gli elementi del contrasto e della dialettica unità si sottraggono alla coerenza lineare che li ha fatti scaturire e che continua a presiedervi come norma e legge operosa. Lamentare che Vittorio Alfieri non abbia divinato l'unità d'Italia sotto la monarchia costituzionale vuol dire lamentare che la storia non sia finita con Vittorio Alfieri. La storia non ubbidisce ai propositi degli individui, non corrisponde mai ad alcun schema. Ma gli schemi sono il segno della volontà che vi innalzano, che la creano. Un Alfieri costituzionalista in pieno secolo XVIII avrebbe potuto soltanto documentare un momento di stasi e di interruzione, segnare un esame di coscienza, e una rinuncia riformistica. Era il momento eroico dell'azione, l'alba di una catarsi per cui i miti dovevano far scaturire volontà, pure e inesorabili, rigide sino al messianismo. Poi sarebbero venuti i legisti a foggiar misure e a costruire formule intellettualistiche. Ma il realismo politico voleva forze e ideali senza cui il momento del relativismo formalistico sarebbe stato arido e decadente. La negazione della monarchia tra Vittorio Alfieri é dunque una volontà e perciò non ammette transazioni, è una forza ideale e non una riforma repubblicana. Liberi i critici di trovare imprecisioni dove l'Alfieri vuole formulare in una parvenza di sistema pratico gli sviluppi della sua teoria. L'Alfieri si è preso cura nel suo trattato di enumerare quasi diligentemente i sostegni della tirannide; la paura (dell'oppresso e dell'oppressore) la viltà (che instaura il regno dell'adulazione), l'ambizione (viziosa dove vale soltanto a soddisfare private passioni e a procurare turpi sterminate ricchezze), la milizia, la religione, il falso onore (tirannide esclude sincerità: rimaner fedeli al tiranno vuol dire essere in realtà spergiuro e fedifrago), la nobiltà (sorta eroicamente come classe politica ma corrotta e schiava per la permanenza a corte), il lusso (che inverte e contamina tutti i valori). Una enumerazione che potrebbe essere continuata e in cui si trovano, è vero, punti di riferimento col Montesquieu ma, forse più, derivazioni numerose dal semplice senso comune. Il criterio secondo il quale il pensiero alfieriano va giudicato non consiste in una sottile critica di carattere tecnico, ma si deve riportare ancora una volta all'unità sentimentale della passione e della coerenza alfieriana. La negazione della tirannide ha anche in questi sviluppi la sua misura in una originale coscienza etica. Dove queste affermazioni sembrerebbero implicare una risoluzione di problemi concreti economicamente o politicamente determinata l'Alfieri non riesce a nascondere la sua fretta e la sua impreparazione. Non nelle sue opinioni economiche consiste la sua grandezza di pensatore politico. Nella sua profezia che è un sistema e un'aspirazione diventati imperativo categorico, i riferimenti all'economia non possono non essere utopistici; e conscio della loro astrattezza l'Alfieri vi attribuisce un significato del tutto secondario: dove questi suoi accenni hanno avuto nella storia una conferma non è possibile trovarvi alla radice un'inesorabile volontà che trasformi il caso in profezia e organismo. .La negazione del lusso sembra dedotta dalla negazione del principio della disparità eccessiva delle ricchezze ma, benché il secolo XIX abbia in un certo senso segnato il tramonto delle grandi proprietà feudali, la negazione alfieriana resta tuttavia connessa all'astrattismo dei primi socialisti utopisti. Cosi è tutta casuale l'acutezza apparente della sua critica all'accumulamento dei beni di terra in pochissime persone, benché l'800 sia stato per l'appunto il secolo della piccola proprietà; e non è dipendente da una precisa giustificazione tecnica o da una esperienza economica il fatto ch'egli non si preoccupi invece della disuguaglianza di ricchezze proveniente dall'industria, dal commercio e dalle arti: egli non poteva avere certo dinanzi agli occhi il quadro specifico dell'evoluzione della società borghese; ma in realtà pur movendo da Rousseau recava i germi dell'assoluto attivismo del liberalismo moderno. La negazione della milizia poi non può intendersi in alcun modo come anticipazione dell'ideologia pacifista. Invero l'ideale aristocratico e attivistico dell'Alfieri difficilmente gli avrebbe potuto concedere l'adesione a sogni democratici di pace universale: con la sua profezia egli porta l'annuncio di una lotta, non la rinuncia di un ripiegamento. Ogni affermazione di un imperioso dover essere deve santificare ed esaltare almeno una guerra, che realizzi l'ideale impegnando tutta la personalità: e la milizia ne è strumento necessario. Così pensa l'Alfieri e, nonostante i dilettanteschi pregiudizi di ripugnanza alla disciplina militare che si trovano qua e là nella Vita e nelle Satire, è ben conscio del processo di eroica disciplina e dedizione attraverso cui deve attuarsi la redenzione della libertà. Ma la milizia nella tirannide non è milizia "non potendosi dir patria là dove non ci è libertà e sicurezza; il portar l'armi dove non c'è patria riesce pur sempre il più infame di tutti i mestieri: poiché altro non è se non vendere a vilissimo prezzo la propria volontà, e gli amici e i parenti e il proprio interesse e la vita e l'onore per una causa obbrobriosa ed ingiusta". PIERO GOBETTI
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