DISCORSO ELETTORALE
Ecco un discorso elettorale che sembrerà ingenuo ai sapienti; ma é solo con questa ingenuità che si può disarmare la sapienza dei mussoliniani. Gli oppositori abiti e sottili troveranno qui un atto di accusa; ma se vorranno adattarsi a una più matura meditazione e cercare nelle parole del nostro collaboratore non una linea di condotta pratica, ma una riserva necessaria per l'avvenire, un gesto di solenne dignità -il loro stile di combattenti ne avrà guadagnato in chiarezza. Gli oppositori seguiranno invece Mussolini sul terreno dei macchiavellismo; cordialmente ottimisti spereranno persino nella rielezione; troveranno di cattivo gusto le nostre questioni di dignità quando si tratta di costruire il fronte unico delle libertà e faranno il gioco di Mussolini che ha bandito le elezioni proprio per dimostrare la libertà del popolo italiano e del regime. Certo la nostra non é una tattica e non propone consigli: il parlare di tattica, di fronte alle risorse strategiche di Mussolini é un'amena sospensione, in attesa di collaborare; ci sembra complicità l'accettare un compito di opposizione che Mussolini non mancherà di sfruttare sorridendo. Meglio non realizzare neanche il proprio seggio elettorale e crearci il vuoto intorno per poterci contare, senza illusioni e senza menzogne. In questi limiti noi accettiamo il pensiero del nostro collaboratore e ci proponiamo in questi mesi di chiarirlo traducendone il tono apparentemente troppo scettico e conservatore nel nostro linguaggio. Un amico triestino mi propone, nell'evento delle prossime elezioni politiche, questa condotta: di ritirare il certificato elettorale, tanto per esser sicuri che non serva a fabbricare un voto falso, e di non votare. Egli é una persona rispettabilissima, e d'animo quanto mai indipendente; tanto, che nelle elezioni del 1921 dette sì il suo veto, e non per preferire l'on. Giunta, ma votò una sola volta; laddove su per giù tutti i suoi compaesani del medesimo suo ceto elevarono ad alte potenze le loro facoltà elettorali, e un altro amico si stimava assai onesto e morigerato, per aver ripetuto il suo voto solo quattro volte. A Trieste la distinzione tra partiti "nazionali" e "antinazionali" aveva assai più fondamento che non altrove, e i buoni italiani si credevano lecito di combinare, per via di qualche arguto stratagemma, la dimostrazione d'una maggioranza strabocchevole. Il mio amico è altresì convinto che, specie nelle città, a non votare saranno in molti, reduci da vari partiti e convinzioni, che non si adattano alla palingenesi fascista, o gente "libera" che non consente alle nuove tavole e non piglia gusto a far designazioni inutili o preventivamente minorate; non so se a tale pronostico si possa prestar fede, se mai sarebbe da raccomandare che tutti ritirassero il loro certificato, o magari facessero la fatica di gettar nell'urna un voto nullo. Ragioni per non votare ce ne sono molte. La meno felice e nobile è quella di temere che manchi la libertà. È un ferrovecchio dei più arrugginiti, ritirato fuori ogni volta dalle parti più sicure dell'insuccesso, inammissibile per lo meno per i nove decimi dell'Italia e dei votanti; e quell'estremo decimo contro il quale certe coazioni sono possibili, le legittima col non ribellarvisi e certo non protesterà mai per questo bene perduto. Si può essere sicuri a priori che le elezioni nelle città si faranno di certo con l'accompagnamento di molti inni fatidici e di grandi pompe quasi funebri, al cospetto di ferme coorti dal grugno duro e dallo sguardo feroce, apparato di suggestiva intimidazione morale; e, nelle campagne con la propiziazione di tutti i possibili approcci e contatti che vanno dalle promesse interessate alle palesi minacce, contro le quali, se gli restano, il contadino può agire con la sua scaltrezza e la sua ipocrisia; ma più in là, e fino a abolire il segreto dell'urna, com'è accaduto, per esempio, in certe elezioni amministrative, non é presumibile che si giunga. Caso mai, sarebbe bene che l'impedimento alla libertà fosse manifesto e clamoroso; e se questo posson desiderare gli oppositori, non debbono "inventare" avanti tempo i fattacci e le paure, ma anzi far accorrere la gente con completa fiducia; e dimostrare la violenza sofferta dopo che son battuti. Ma ci son ragioni più nascoste e sottili, che si diffondono a volte in stati d'animo generici e imprecisi. Non fu raro incontrare un anti-elezionismo che poteva dipendere da un disinteresse assai gretto, ma questa forma di mente ormai sará rimasta a pochi, o vecchi, o così estranei e lontani dalla vita pubblica, che, in questi ultimi anni, non hanno avuto paura. Gli altri seguaci del proprio comodo si sono riscossi, e han riconosciuto, sotto l'urto secondo loro furibondo delle forze rivoluzionarie, l'interesse che avevano alla conservazione sociale; quando fossero tanto infrolliti e spauriti da non trovare il coraggio d'indossare la divisa della Milizia Nazionale, e così meschini e poco curanti da non si lasciar adescare con gli sfavillii del patriottismo gratuito, vuol dire che seguiranno le liste o i consigli del Giornale d'Italia. Tanti altri però, e che si stimano a buon diritto più vivamente interessati ai problemi politici, non si sentono di far le difese del parlamento. Si può anzi dire che lo sdegno e la nausea che in molti di noi, generazione di guerra, provocavano certe scene e condizioni parlamentari, e, più giustamente, la loro causa, la comprovata meschinità, imperizia, ignoranza, inconcludenza di tanti uomini che vi sedevano, fu vinto soltanto dallo sdegno - di ben altra natura, questo - e dall'offesa del tono mussoliniano quando si poté credere che significasse cose serie. E nulla della Camera ch'è morta si riesce a rimpiangere. A guardar più a fondo ci si convince però che molte delle cose deprecate e delle manifestazioni più urtanti son conseguenza di fatti duraturi, e non localizzabili; che il livello degli uomini, per esempio, non è più basso tra i deputati che tra altre categorie, le quali hanno minori occasioni di mostrarsi al pubblico e concludono un lavoro su cui non s'appunta un interesse di tutti. Non si vede perché l'ambiente parlamentare dovrebb'esser "degenerato" o "corruttore" in modo speciale e come mai non rispecchierebbe condizioni della vita generale, e non rappresenterebbe secondo il giusto e visibile loro valore le forze e correnti che esistono, prima di produrle per la sua parte. I fenomeni di larga interferenza tra le varie forme di vita e la necessità di date manifestazioni, azioni, e reazioni sono ostiche all'assolutismo dei giovani che non sa trovare in genere il giusto punto dove esprimere e applicare le proprie fedi; c'è, come sempre quando si comincia a guardare e a prender in considerazione, un fenomeno di non-accettamento, di sopravalutazione di stati d'animo cari e personali, il più spesso davvero non indipendenti anche se si accanisca a difender con essi la nostra originalità, che sarebbero i pregiudizi in germe; e tutto quello che pare non corrispondere, e che non si sa come far corrispondere, è, prima che accostato, dannato. Per forza a questo stato s'accompagna una mancanza di discernimento per cui non si sa capire senza consentire e entusiasmarsi, una totale mancanza di compassione e anzi il bisogno di esser spietati. Anche dopo, quando ci si forma una visuale più indulgente e si potrebbe esser tratti, per il piacere di comprendere, a giustificar tutto, le posizioni assunte e le scomuniche lanciate restano dentro e danno origine a quello stacco, a quella tristezza, a quel rannicchiamento e a quella esaltazione di sé, per cui le manifestazioni di vita si colorano di romanticismo e pare, ogni volta, si discenda dall'alto d'una perduta purezza. C'è pure un romanticismo elettorele, il voto amletico, la tragedia dei principi conculeati, la passione di parte e di patria che veramente sa ancora di cospirazione ed è truce e tenebrosa come un amor contrastato. Altri, più segretamente, sentiranno queste dissidio come un'impossibilità di votare, in quanto c'è impossibilità di scelta e il modo della vita politica, tutt'uguale malgrado la differenza nominalistica dei partiti, benché legittimo e da non sovvertirsi, è indegno; o comunque ripugnante, tale che a parteciparvi sarebbe una colpa e uno scadimento. Un po' per merito di questa visione, e fuori completamente dal "giuoco delle parti" o da un amore alla giustizia sotto specie aritmetica molti son stati contenti della rappresentanza proporzionale. Fu bene la sola riforma che si potesse chiamare idealistica - e certo in questo senso prettamente liberale. Non furon tanti a credere che sarebbe stata uno specifico miracolo, tant'è vero che non si maravigliavano de' suoi risultati e magari capirono che anch'essa, e malgrado le forti correnti di massa che v'avevano interesse e vi trovavano uno sbocco, era un po' troppo teorica e imposta, o matura per mezza Italia soltanto. Ora sono i partiti che v'avevano messo più speranze, i popolari e i socialisti, in certo modo a deprecarla, col riconoscere che il parlamento non funzionò a dovere; ma si può invece ritenere che la deficienza del suo funzionamento dipenda dal fatto che nessuno fu abbastanza "proporzionalista". D'altronde chi nel chiedere la proporzionale sapeva quel che faceva, non aspirava davvero a tempi quieti, a miracoli di saggezza e a regimi paternalistici; e prevedeva che "creare partiti" volesse dire qualcosa di più osceno e di più tempestoso che non le fortune di don Sturzo. Il movimento fascista prima delle sue glorie totalitarie partecipava di questo spirito, e forse, almeno in apparenza, le rappresentava più genuinamente degli altri. È logico che aderendo a tale rinnovamento di forme, non gli si oppose poi il regime parlamentare come le colonne d'Ercole; e s'aspettava anzi che a traverso una specie di arbitrato degl'interessi e delle idee, incarnati nei partiti, per opera del governo, che sarebbe dovuto essere proprio per ciò " di coalizione" e quindi intinto di spirito "collaborazionistico", nuove forme rappresentative si maturassero. In un certo modo quindi la "proporzionale" stava più in su e più solida dei nostri spiriti che il regime parlamentare, era il nostro interesse politico attivo e più vicino. L'assassinio di quel sistema è allora una ragione sufficiente per una protesta tanta e per l'allontanamento alle urne. Tanto in più che io ravviso in questo atteggiamento un modo adatto a distinguere la borghesia. Altre classi difendono, col voto, la propria fortuna e la propria vita e possono perciò accettare qualunque patto. Il borghese é proporzionalista come persona della classe dirigente, in un senso quasi tecnico e quindi specificamente politico. A una passione idealistica si sostituisce o si unisce una passione pratica, quel desiderio di buona amministrazione e di "governo" che si fa scienza - o arte - e lo si apprezza in sé, staccato dai propositi e dai fini. E' importante, di certo, che le classi contadine e operaie abbiano il loro peso nella vita politica: ma é anche importante il "come" l'avranno, l'ordine dei trapassi, una specie di regola delle precedenze e di legalismo dei riconoscimenti. Tale é la funzione "costituzionale" che le borghesie tipiche si sono assunte per secoli; che ogni nuovo ceto nel farsi borghesia (e verrebbe voglia di dir aristocrazia) ha riconosciuto per suo compito e vi si é piano piano addestrato. In altri termini, significa pure pensare alla dignità della nazione, a quella preparazione lenta, senza scosse, tradizionale, essenzialmente riformistica che, se è assurda per il proletariato, è il patrimonio più sicuro e meno alienabile delle classi abbienti. Si usa un po' troppo vedere - o confondere - la borghesia nella plutocrazia e nel ceto medio, che son le classi più asservite ai loro interessi grandi o piccini, o che meno idealmente li sanno intendere. Essi amano, o temono e quindi affrettano le grandi avventure, i colpi di scena. Non sia inibito il pensiero che si rivolge a un ordine ,di cose più pacate e crede più all'importanza dei secoli che a quella degli anni. Ha dunque un aspetto rassegnato, un tono pessimistico che viene irriso o imprecato dai mistici dei fatti compiuti. Non si adatta di certo a una psicologia da maggioranza; e al dogma della maggioranza non si fida se non come a un esperimento; ma tanto più rifugge dal consenso carpito a forza e dalla suggestione della violenza. Non crede al progresso né agli altri miti, ma li adopera e cioè spera di aver fatto il suo debito quando non avrà rinnegato le forme che lo spirito umano ritrova internandosi in esse, col suo criterio le avrà regolate e condotte verso il risultato di cui sono degne. M.
|