Guerra agli apoliticiCi siamo ritirati al di sopra di tutte le mischie, in questo piccolo hortus conclusus donde tutte le lotte degli uomini ci appaiono, in vista dell'infinito, nella loro necessità e, anche, nella loro vanità. Da questo luogo solitario che pochi toccano e nessuno turba, guardiamo gli uomini e la storia. Contempliamo e non combattiamo. Tutto, vinti e vincitori, ci appare sotto la stessa legge, dura e severa, che tutto costringe e tutto guida. Forse mai abbiamo sentito tanto viva in noi la esigenza religiosa dello spirito, e non abbiamo mai cercato con tanta ansia un Dio. Ma dicono che noi siamo degli scettici, gli esuli volontari, o come anche vogliono, i disertori di tutte le lotte. Dicono che abbiamo l'anima del vecchio letterato italiano, quel povero vecchio letterato, che fa oggi le spese di tutti i nuovi entusiasti. Per il vecchio letterato tutta la vita s'esauriva nel suo mondo d'artista tagliato fuori d'ogni realtà (salvo, in momenti di completa dedizione proprio a questo suo mondo che per lui avea pure un valore, a creare un Canzioniere e un Orlando furioso), nella sua forma, per noi invece tutto si dissolve in giuochi di pensiero e di sottigliezze spietate e squisite. Essi, i realizzatori, maledicono noi, gli inutili della vita. Scettici, noi, ma poiché senza una fede, dicono, non si vive, noi siamo dei morti. Queste nostro scetticismo è invece il frutto più maturo del nostro liberalismo. Che é un liberalismo senza restrizioni e senza compromessi. Il liberalismo in Italia non può e non deve, se vuol tener fede a sé stesso, fare della politica. Almeno come l'intendono i politici. Il liberalismo politico, terminata l'azione rivoluzionaria nella conquista regia, negli anni più lontani del risorgimento, è vissuto sempre sul compromesso, fin dai tempi della Destra. Perché in Italia non c'erano e non ci sono le condizioni per una politica liberale. Il moderatismo della vecchia Destra, il trasformismo della Sinistra, la dissoluzione giolittiana, il fascismo appaiono a noi in una linea ideale di svolgimento continua, senza interruzioni e senza rivoluzioni, nella classica linea della più recente politica italiana, politica cioè moderata. Politica di un paese senza liberali, ed anche senza conservatori, ma in fondo alla quale è viva, in ogni sua forma, l'esigenza liberale. Il moderatismo fu il compromesso tra l'idea liberale e le necessità della vita italiana di dopo il '70. Silvio Spaventa, il capo della Destra, ma anche tout-court il maestro del liberalismo italiano giustifica in una pagina famosa la necessità del suo liberalismo moderato, che sentiva non essere liberalismo. E riportando la piccola lotta italiana ai più alti conflitti del pensiero nega in Italia l'esistenza di un partito conservatore, perché non può appoggiare il suo conservatorismo su una nobile tradizione. Ai conservatori italiani mancava la forza conservatrice della religione. Ma il conflitto di ideologie, sul terreno della prassi politica, si riscive negli anni seguenti in termini d'economia. La Sinistra è l'interprete di questo trapasso. E con essa il più vivo dei suoi uomini: Giolitti. Che della lotta economica fa il timone del suo governo. La lotta ideale si dissolve in una lotta per salari. In realtà la lotta ideale era già morta nel compromesso moderato della Destra. Anzi in questo senso Giolitti con il suo accettare la lotta economica lavora per un'Italia liberale dell'avvenire, riportando inconsciamente e contro la sua stessa politica, alla creazione di partiti. Ma finché Giolitti resta l'addomesticatore non lascia risuscitare nulla d'un passato, che a lui dovea sembrar pericoloso. La politica cooperativistica e laburista è il suo più alto ideale. I conservatori e i liberali sono fuori di essa. L'Italia giolittiana, compromesso tra la lotta economica nascente e le necessità dell'unità italiana, non ebbe nulla di liberale. L'Italia giolittiana era sulla via del moderatismo della Destra, su cui oggi tende, contro ogni velleità di lotta politica, a riporsi il fascismo. Che pure un momento parve risollevare vecchie ideologie, pericolose per l'Italia moderata. Nel periodo che sembrò un nazionalismo repubblicano. Ma la lotta politica ancora una volta fu più debole della realtà. Come il socialismo dinanzi a Giolitti, il sindacalismo repubblicano dinanzi alla burocrazia e ai piccoli borghesi. E noi restiamo fuori di questa storia, che è una storia di fallimenti ideali. Il nostro liberalismo guarda al di là del moderatismo della Destra, del possibilismo della Sinistra, della dissoluzione giolittiana, del fascismo. E' questo il segreto del nostro scetticismo. Il nostro liberalismo, che è dottrina e non può essere azione politica ci permette di comprendere la realtà ma non ci lascia combattere. Tutta la nostra ultima storia ci appare non una lotta politica ma una preparazione alla lotta politica. Il nostro liberalismo sarà per un'Italia che chiede lunghi anni di sviluppo economico e di educazione politica. Perciò resta fuori e aspetta. Non accettiamo più il compromesso dei moderati. Siamo i rigidi dell'ideale. E la nostra politica si riduce ad agitare problemi vivi e attuali. Sembra poco eppure è la politica più seria in questa vigilia. Domani quei problemi avranno una realtà matura portati nel vivo della politica militante. Ci siamo ridotti in margine alla politica ma siamo più che mai attaccati alla vita. Attaccarci alla realtà e studiarla. Senza politica, che in qualunque forma non può essere la nostra politica. Perché questa non è ancora la nostra Italia. Irrigidirci in una opposizione eterna e sterile può essere di buon gusto ma è di dubbia utilità. Importa invece studiare la realtà e le necessità italiane: questa è l'unica politica che noi possiamo fare. Il liberalismo, chi lo viva con fede, non può fare della politica. L'idea liberale di fronte alla realtà dell'Italia, che è una nazione che si fa, è una ruina mesta. Il nostro scetticismo pratico ha dunque una sua fede ideale, non è la malattia del vecchio letterato. Che era invece la rettorica. Noi non abbiamo mai fatto della rettorica. Uno scettico, il più grande di noi, è Giustino Fortunato, che fu solo all'indomani della guerra a vedere e dire quel che è l'Italia. La rettorica è degli altri. E risale ad anni lontani. Il vecchio letterato trionfava ancora nelle nuove accademie dell'eroismo e del decadentismo. E noi volemmo una morale più umana e un'arte più serena, ingenui cercatori d'umanità, in questo ritorno secentesco che ignora la grandiosità dell'antico. E salutammo maestro Benedetto Croce. Che tagliò allora le penne a tutti i sogni nietzchiani e sperellici, e ci riportò, noi ancora sani, terra terra, a guardarci dentro e a studiarci; e a rifare noi stessi con l'umile lavoro d'un giorno. Fu una scuola sopratutto di serietà. Ma intanto lontano da noi l'Italia d'annunziana prosperava e il 600 saliva, saliva. D'Annunzio è il Gran Maestro (la terminologia è elegante ma non più di moda) della Nuova Italia (la terminologia è vecchia ma ancora di moda). L'Italia dannunziana, caratteristica espressione della insufficienza e dell'impreparazione politica italiana non è la nostra. Gentile, che non vorrebbe abbandonare il suo ideale di un'Italia seria e lavoratrice silenziosa, ma che si illude su tante cose, ha scritto recentemente che in Italia ormai la rettorica è morta. Sviste di un filosofo. Morta la rettorica? Ieri si è firmato il patto marino. Con introduzione di Marco Gratico, vecchio lupo di mare. Claudio Cantelmo pel re di Roma sogna l'Impero. Ma l'Impero è un Basso Impero. DOMENICO PETRINI.
Veramente in Rivoluzione Liberale: non vorremmo più riprendere questo discorso. Chi identifica il liberalismo con la tolleranza e con la tecnica problemistica non capisce niente di liberalismo. La tolleranza liberale é un problema di educazione che ha un senso tra nazioni civili. In un paese incivile, di costumi africani come l'Italia in cui i governanti, secondo che si sentono più o meno sicuri di se stessi, tendono subito a diventare dei domatori e a trattare i governati come fiere denutrite da addomesticare, si può difendere la tolleranza solo con l'intolleranza più inesorabile. Dato e non concesso che si possa in politica avere un atteggiamento di meri dialettici e di tecnici è evidente che anche Prezzolini, Missiroli, Petrini, se non vogliono confondersi con la palingenesi totalitaria dei cortigiani dovranno difendere con le unghie, con la dimenticata e preistorica ferinità, l'intelligenza e il decoro. Tutti politici, tutti combattenti. O nella corte dei nuovi padroni o all'opposizione. Chi sta in mezzo non è indipendente, né disinteressato. Gli scettici sono grati al regime. Esso non chiede ai cittadini che di abdicare alla loro dignità e ai loro diritti politici: c'è un uomo che in Italia che pensa a tutto, gli altri lavorino ammirando o si divertano nelle sagre o si nascondano in biblioteca. Di fronte a questo programma non si deve più fare neanche nella letteratura senza combattere: chi manca all'appello cade in minorità politica. Del resto anche in queste posizioni di ferri corti la superiorità di educazione, farà sempre distinguere la nostra intransigenza politica del politicantismo dei trafficanti. Noi prepariamo una classe dirigente più colta, una più viva coscienza dei problemi politici, lavoriamo per il futuro, per un futuro certo in cui il nostro realismo avrà un senso e si accompagnerà con tutto un tono della vita italiana. Ma tutte queste sono frottole, alibi per disertori, ipocrisie vigliacche se si ammantono sotto la formula della apoliticità. Non c'è preparazione che non sia già lotta attuate, non si può pensare un presente di studi e un domani di azione. Chi non si irrigidisce in una opposizione eterna e sterile non ha diritto di pensare alla lotta politica di domani. Egli ha rinunciato e difenderla oggi. Anche noi diciamo con Petrini: Questa non è ancora la nostra Italia. Ma soltanto perché la nostra c'è già in noi e noi la opponiamo oggi all'Italia mussoliniana. Opposizione senza illusioni e senza ottimismi; ma chi è scettico in altro modo, chi si professa apolitico, non è soltanto un letterato o un retore, è un disertore, un complice del regime. Si intende che l'accusa non riguarda l'amico Petrini: che si definisce scettico, dopo una franca pregiudiziale di oppositore; il nostro discorso vuol essere per tutta una malattia italiana e chi vuol capire capisca. p. g.
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