Note di economiaColetti protezionistaNel suo ultimo studio sul dazio doganale del grano il Coletti non arriva a un'esplicita accettazione del balzello protettivo. Ma tutta la sua fine e frammentaria argomentazione vuol riuscire a un abbozzo di difesa. Incomincia lo statistico sottile coll'esame delle conseguenze del ribasso sul grano cui si assiste dal luglio scorso, per distinguere la riduzione nel valore del prodotto lordo da quella nel reddito netto. Ecco la prima ipotesi di un ribasso non transitorio, non annuale, ma durevole di cui manca ogni dimostrazione. Mancanza grave e dolorosa, non tutti essendo disposti a vedere un fenomeno generale e permanente in un ribasso che dura da pochi mesi ed é molto notevole nel solo mercato italiano: il grano estero di importazione continua a quotarsi a Genova sulle 108-110 lire per quintale, con fermezza sorprendente, senza tracollo alcuno. Dal ribasso del prezzo discende il ribasso del reddito netto? È la seconda ipotesi, postulata pur troppo anche questa, senza le indispensabili pezze giustificative. Si corre il rischio di sorprendere lo statistico, abituato a ben più sottili e delicati e complessi calcoli, svolti con l'aiuto di strumenti matematici così tremendi da far allibire i non iniziati ai misteri delle formule; ma come non domandare: l'abbondanza del raccolto non ha compensato in qualche parte la perdita imposta dai ribassi dei prezzi? Una semplicissima operazione aritmetica venne tentata in queste colonne nel novembre scorso: i 61,4 milioni di quintali di frumento, ottenuti nell'estate passata sopra una superficie quasi identica a quella dell'anno 1922, non sono probabilmente costati molto di più - per le spese di semina e di coltivazione - dei 44 milioni di due anni or sono; e quanto alla trebbia e mietitura, forse il rincaro avrà trovato compenso nella maggiore quantità di paglia ottenuta. Il valore del raccolto del 1922 al prezzo medie di 115 lire per quintale salì a 5058 milioni, mentre anche con le ben più scarse 86 lire dell'ultima campagna toccò i 5202 milioni. Il rincaro lordo sarebbe dunque aumentato e non diminuito: quanto il ricavo netto sarà diminuito? L'onere della prova spetta a chi parla di forte diminuzione. 2. Partendo da queste due basi, all'apparenza non granitiche, il Coletti esamina se la ritorsione degli interessati all'asserito ribasso nel reddito netto possa riuscire dannosa alla collettività. Con l'acutezza abituale si attarda nello studio della probabile condotta degli abitanti in montagna ed alta collina, cioè in tre quinti del territorio. Ne ricorda l'indifferenza ai prezzi, consumando essi direttamente tutto il proprio raccolto; il legame tradizionale alla terra armata con intensa passione; il desiderio di rimanere nella occupazione preferita piuttosto che allontanarsi; tutto insomma porterebbe a credere non nascano dei mutamenti nell'assetto odierno: l'A. conclude invece colla previsione di nuovi abbandoni da parte di alcuni proprietari, e di sostituzione di una magrissima pastorizia al frumento. Perché? Accenna a ragioni tributarie ed ambientali per nulla connesse al ribasso del prezzo in questione. Nelle zone migliori, ne deriverebbe invece una spinta ad ampliare le culture industriali, gli erbai ed i prati, con incremento nell'industria del bestiame, e miglior resa complessiva. Benissimo! e invece il Coletti ne deduce che, nella maggior parte delle terre a grano, le semine continueranno anche se la convenienza ne sia ridotta o scomparsa, perché si é inchiodati a questa coltura dalla scarsezza delle altre surrogabili. Qui lo statistico tratteggia una sua completa teoria delle differenze che staccano l'agricoltura dall'industria. Maggior lentezza nei movimenti; limitazione nelle specie di coltura in rapporto alla qualità del terreno, al suo posto, al clima ed alla comodità dei mercati; scarsezza di mezzi finanziari; connessione delle colture fra di loro, con difficoltà tecniche nel variarle e senza abbondanza di contadini e di agenti capaci, perdite notevoli per gli impianti già fatti in passato e gli investimenti di capitale; contrasti derivabili dal mutarsi delle produzioni nelle zone con contratti di mezzadria; attaccamento del colono alle produzioni di cui si alimenta e dove la sua opera personale ha parte relativamente minore. Quadro del tutto opposto si osserverebbe nell'industria manifatturiera, con gamma quasi infinita di scelta, passaggi agevoli e pronti ed immuni da perdite da un ramo all'altro nel giro di ampie categorie. Ma a ripensarci su non sarebbe difficile scoprire che le industrie agricole e quelle manifatturiere presentano velocità di movimento poco disforme: tutto dipende dal carattere dell'imprenditore, capace di vedere subito o con lentezza la convenienza di certe sostituzioni. La qualità e la composizione del suolo, il clima e la distanza del mercato presentano spesso legami rigorosi anche per le manifatture: come ricavare argilla o minerali dove il terreno od il sottosuolo non é adatto? Ed il lavoro della lana o del cotone in una oppure in altra zona non é forse condizionato al clima, al grado di umidità o di secchezza dell'atmosfera, alla abbondanza di correnti d'acqua dotate di purezza e di certe proprietà? L'ubicazione delle industrie - come dimostrò Adolph Weber - é influenzata anch'essa rigorosamente dal costo di trasporto sia delle materie prime come dei prodotti finiti, ed all'influenza degli altri fattori di localizzazione. Il concentramento, col ribassare fino ad un certo limite, e rendere in seguito più costose certe spese, attira od allontana dai buoni mercati di consumo e di lavoro; ma per tutto quanto si ottiene con materie prime non uliquite o con largo impiego di prodotti che perdono molto del loro peso durante il processo di fabbricazione, il privilegio di alcune località diventa preponderante. Se la connessione lega tra di loro le produzioni agricole, altrettanto accade per i rami manifatturieri; non solo in quelli legati da un unico processo produttivo, ma dovunque un prodotto sia complementare o strumentale ad un altro, ed in ogni caso dove si presenti qualche punto di contatto, il successo é strettamente legato alla scelta della sede. Le perdite non tenui sofferte in alcuni rami rendono i capitalisti ancor più diffidenti nei loro prestiti qui che forse nel campo agricolo: e circa le perdite notevoli da subire per gli impianti già fatti ed il capitale investito, appunto la maggiore grandiosità degli impianti rende le perdite - inevitabili in caso di disinteressamento - forse assai più intense nei rami manifatturieri che in quelli agricoli. Chi ha scavato la miniera e ne vede subito esaurirsi il filone, perde senza scampo la massima parte del suo capitale, perché i diritti ed il costo delle gallerie e dell'armamento di queste non valgono più un soldo. Il costruttore di un laminatoio, ove abbia scelto località non adatta, dovrà vendere per ferravecchio il suo macchinario quasi nella sua interezza, la spesa di smontamento e trasporto rendendo poco redditizia spostare le parti pesanti. Perfetta analogia con i terreni a vigneto dove non rende mettere il prato. Nelle industrie manifatturiere la gamma della scelta probabilmente non é molto più larga che nell'agricoltura; in ogni ramo nuovo i pionieri trovano difficoltà ed ostacoli prima di scoprire dei risparmiatori che abbiano fiducia, dei dirigenti volonterosi, degli operai capaci di adattare le proprie attitudini ed attività ai nuovi metodi da seguire, dei consumatori disposti a modificare i loro gusti. La tradizione è in ogni campo così forte che si continua a perpetuare attraverso i secoli il lavoro come lo facevano gli antenati; a fatica accogliendo i nuovi sistemi; ed in ogni punto gli imprenditori dalla concorrenza non tenue sono portati ad una scelta complessivamente non più larga di quella che resta al contadino. E come nell'agricoltura il sostituire la derrata ad un'altra può dare origine a contrasti dove il mezzadro partecipa al raccolto, non mancano le reazioni da parte della massa operaia di fronte ai cambiamenti di lavoro manifetturiero, allorché la trasformazione d'impiego venga ad imporre per esempio - oppure a togliere dove vi era - il cottimo quale forma massima di compenso per chi lavora. 3. In assenza di una rigorosa dimostrazione che il reddito lordo sia diminuito per i produttori, e dopo aver semplicemente presunta la contrazione del reddito netto; riesce pericoloso desumere dai due postulati incertissimi l'abbassamento nella formazione del risparmio nuovo e la possibilità di caduta dei salari e dei consumi. Né minor rischio si corre derivandone norma di giudizio per combattere la proposta, messa in ridicolo come "vano e verbale scherno", di pretendere efficaci diminuzioni nei dazi rincaratori di quanto i contadini debbono adoperare. Il Coletti preferisce il danno "morale" di una eccezione alla libertà, pur di sottrarre l'attività rurale alle "nuove applicazioni ed esercitazioni liberistiche". Conviene attardarsi un poco nell'esame di questi punti. Con la proposta dei "vergini teorici del liberismo" (chi domandava al Coletti una dichiarazione di non castità?) si tende a due risultati: abbassare per i contadini le spese di produzione; b) ottenere in cambio contemporaneamente dagli altri paesi una riduzione dei dazi che ne chiudono fuori le nostre derrate. Vantaggio duplice dunque, e questo non minore di quello; né richiede, per raggiungerlo, maggior dispiegamento di forze in confronto a quanto sarebbe necessario spendere per giungere al ripristino del dazio sul grano. A meno che si abbia un terrore enorme della "Confederazione generale dell'industria" e si voglia a tutti i costi lavorare con essa. Con la proposta del Coletti invece si ha l'impressione che gli agricoltori - come al solito - vendano il diritto alla primogenitura per un piatto di lenticchie. Cioè può fare il dazio se non rincarare il grano straniero, affinché il prezzo interno possa mantenersi più alto? Ma dall'epoca del raccolto in poi il frumento estero - a dazio sospeso - é stato sempre sulle 110 lire, con un distacco da principio di 25 lire e di una diecina ora per il miglior apprezzamento del nostro grano: dunque a ribassare il prezzo la concorrenza estera non ha agito affatto, nemmeno per un centesimo. In queste condizioni un dazio doganale rappresenta per gli agricoltori una truffa all'americana; e consigliarlo non é né opportuno né adeguato. Col raccolto nuovo come si atteggeranno i prezzi? Può darsi giungano alle 110 lire mantenute dei cereali stranieri con bella saldezza; come potrebbero anche salire entrambi più su. Però il futuro é futuro, non ne sa nulla nessuno, né alcun indizio autorizza gli astrologi a pronosticare variazioni in un senso o nell'altro. Intanto per ora il dazio non si capisce quale influenza potrebbe esercitare sui prezzi né come saprebbe influire sulle semine già avvenute: quanto accadrà a giugno é del tutto ignoto, sicché tutto consiglierebbe ad attendere quella data. Le maggiori sorprese sono proprio contenute nelle ultime considerazioni che presenta il Coletti; dopo aver fatta la sua scelta supponendo duraturo il periodo con prezzi bassi, rifiuta di pronunciarsi sulla durata del periodo di applicazione del dazio protettivo. Ma allora in base a quale calcolo ha fatto la sua scelta? Abbiamo tutti imparato dal suo illustre maestro, Maffeo Pantaleoni, che un dazio protettivo può essere utile per evitare una crisi - quando si attraversa un periodo di eccezionale ribasso dei prezzi. Se per es., sul mercato mondiale il frumento da 110 scendesse a 85 lire per quintale, la concorrenza estera può darsi procuri una perdita per l'industria cerealicola di tre miliardi di lire col rendere inutili certi impianti; chiusa la ondata di rinvio e tornata la convenienza a produrre grano, ecco imposta la spesa di altri tre miliardi per ricostruire l'attrezzatura. Converrebbe allora ricorrere ad un dazio protettivo di 25 lire per quintale allo scopo di evitare la spesa di questi sei miliardi? La risposta é affermativa nel caso si possa prevedere breve la durata del periodo a cui imporre ai consumatori il sacrificio, quando si sia certi che nel complesso risulterà minore della perdita che si vuole evitare. Se i coltivatori di grano dal rincaro provocato dal dazio otterranno un profitto di 1250-1500 milioni all'anno dover mantenere il dazio durante un periodo di tre-quattro anni al massimo, può lasciare ancora un guadagno, mentre scomparirebbe del tutta ove si prolungasse di un altro. Se dunque non si possa prevedere il periodo di durata per il dazio protettivo, la scelta di questo diventa puramente arbitraria: d'altra parte si capisce come rischiosissima appaia una previsione di questo genere. Ma anche qui l'onere della prova spetta a chi chiede il dazio. In tanta incertezza, con un così caratteristico e persistente distacco dei premi interni da quelli esteri più elevati, le conversioni al protezionismo non appaiono logiche. Tanto più che non si capisce nemmeno quest'ultima illazione non dimostrata: ridotta la produzione paesana dovendo ricorrere a più abbondanti importazioni di grano estero, queste avrebbero per conseguenza l'inasprimento dei campi, con tutte le ripercussioni di questo malanno. È necessario ripetere il ragionamento svolto da tutti gli scrittori classici, da Ricardo in poi - che nega potervi essere ripercussioni sul prezzo dei cambi in conseguenza del variare delle importazioni ed esportazioni? È necessario ricordare che il cambio non é che un rapporto tra la capacità d'acquisto della nostra moneta e quella della moneta altrui? E che sulla capacità di acquisto della moneta la situazione della bilancia commerciale non ha influenza se non per via indiretta ed eccezionalmente? Ma allora come mai il sofisma ritorna fuori imperturbabile oltre che nei memoriali dei sicofanti dei protezionisti persino sotto la penna di uno dei più colti tra i nostri statistici umanisti? Torino, marzo 1924. OBSERVER.
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