DEMOCRAZIE RURALI E DITTATUREAnche se non fosse ufficialmente proclamato sarebbe ormai visibile per mille segni che il centro delle forze, che reggono la attuale situazione, si sta trasferendo verso le classi del possesso terriero. A chi aveva esattamente apprezzato la maniera di nascere della situazione stessa, tale accadimento non è certo fatto per recar meraviglia. Nei limiti in cui l'ambiente politico-sociale, che si è venuto costituendo nel paese, può essere qualificato di reazionario, è, anzi, naturale che così sia avvenuto. Si realizza, in tal modo, anche da noi una disposizione di forze non troppo dissimile da quella che in Francia, e anche altrove, ha sovente determinato il contrasto fra la capitale e la "provincia". Ma, nel caso nostro, l'avvenimento è ancor più notevole. In effetti le forze della borghesia industriale o, se si vuole, del possesso mobiliare in genere, sono ben lungi dal fare ancora adesione alle nozioni di libertà, come fu, in genere, pel loro costume europeo. La Stampa ha ben illustrato questo punto. E, quindi, conviene conchiudere che i ceti aderenti al reddito terriero, o, almeno, gli strati più retrivi di essi, si stanno ponendo su un terreno del tutto eccezionale: che non solo è quello del conservatorismo, ma è al di là dei limiti stessi di qualunque reggimento civile moderno. Posto pure in questi termini, estremamente crudi, non è da credere, però, che il fenomeno sia particolarmente italiano. Il risveglio e la sollevazione della proprietà terriera sono, anzi, generali: levée verte li chiamano i francesi, e green rising in Inghilterra. Ma essi sono anche strettamente collegati con la crisi dell'economia industriale conseguita alla guerra, e si intende pertanto che si sono prodotti in forma più acuta là dove è più rado e debole il tessuto del capitalismo produttivo. L'Europa centrale e orientale sono, infatti, il terreno di cultura specifico del fenomeno, ed è, manifestamente, da ricondursi ad asso la prima rivoluzione bulgara. Questa è sboccata in una dittatura agraria apertamente praticata, ma, quali che siano le dimensioni e il rilievo del fatto, esso si disvela sempre come una corrente avversa ai medesimi postulati liberali. E' questo il suo tratto essenziale, e in tal senso le sue analogie col reazionarismo classico e tradizionale del possesso terriero appaiono evidenti. Ma a questo proposito, però, non possono non farsi due importanti rilievi. Il primo è che le tradizionali tendenze antiliberali delle classi agrarie si riferiscono particolarmente al grande possesso terriero, non ancora del tutto mondo di residui medioevalistici. E il secondo è che, per converso, oggi ci troviamo di fronte ad una proprietà terriera grandemente frazionata, di formazione in grandissima parte moderna, e che quasi dovunque ci si presenta sotto l'aspetto economico di una "democrazia rurale". Nasce pertanto spontaneamente un quesito: Come possa ricondursi una struttura economica del tutto nuova, come è quella della proprietà terriera esistente, ad una ideologia e ad inclinazioni politiche e storiche passate e superate. O, più precisamente, come accade che una democrazia agricola, come è l'Italia coi suoi sette milioni di proprietari, sia stata e sia, sopratutto nelle sue regioni più progredite, il supporto materiale d'un ordinamento del potere pubblico di carattere apertamente o copertamente dispotico. La scienza economica indica in maniera molto chiara le ragioni per cui il reddito terriero è tratto, dal suo stesso modo di formazione, ad essere avverso agli esperimenti della libertà. Tali ragioni possono riassumersi in questo modo: il reddito della terra è, più assai che quello mobiliare in genere, a fondamento monopolistico; all'opposto l'esercizio delle libertà politiche fu sempre capo ad una azione antimonopolistica; e, di qui, l'antagonismo naturale fra i due. Le cose stanno in realtà, nelle grandi linee, così... Ma tuttavia la stessa scienza ci conduce ancor di più vicino al vero quando rileva che, nella scala dei redditi percepiti, la classe industriale si trova in un posto molto più elevato che non la classe agraria. In altri termini il fenomeno della plutocrazia, nel senso proprio del vocabolo, è ignoto alla economia terriera. Alla sua volta, però, questo fatto non si spiega che riferendolo a un'altra condizione di cose: e cioè che anche il fenomeno del grande sindacalismo e del trustismo, in tutte le sue forme, è totalmente estraneo, o quasi, ai procedimenti dell'impresa agraria. In realtà questa vive allo stato autonomo e indipendente. Essa, nel mondo economico, è sola; non ha rapporti di dipendenza per entrare in possesso dei suoi elementi di produzione; non è sottoposta che in misura molto ristretta alle vicende dei mercati di spaccio; vive senza regole artificiali e, in certo senso, è propriamente anarchica. Non è un caso se l'individualista Proudhon la prediligeva. Contro lo Stato ormai centralizzato e contro il nascente "feudalismo industriale" è, in effetti, molto facile ricercare nella proprietà la salvaguardia della libertà contro l'autorità. A questa intrinseca autonomia della intrapresa agraria deve anche ricollegarsi appunto la vaga impronta "democratica", che amano assumere gli odierni movimenti delle forze rurali. Queste non costituiscono certo una oligarchia: sono anzi, anch'esse, una massa. La quale però, a differenza delle masse operaie e anche dei gruppi esponenti del capitalismo industriale, ha una caratteristica: di essere, per le ragioni stesse della sua economia, eminentemente inorganica; di esistere allo stato dicoacervo; e quasi del tutto sprovvista di rapporti interni di coordinazione delle proprie attività economiche. Ora a questo punto si possono richiamare alcune considerazioni del Loria. Egli scrive: "Quando il numero dei redditieri superiori è relativamente considerevole, la forma di governo si approssima alla democrazia; o, più spesso i redditieri superiori, appunto perché assai numerosi, sono costretti a delegare il potere ad un solo imperante, istituendo così la tirannide". In queste parole una riposta verità è ben adombrata, ma, per trarla a maggior chiarezza conviene aver proprio presente che dato l'attuale assetto, la numerosità dei redditieri superiori si riscontra prevalentemente nell'economia terriera, e che essa vi si riscontra in ragione diretta della mancanza delle forme superiori dell'organizzazione economica moderna Qui sono, in sostanza, da ricercarsi i motivi profondi che conducono le classi terriere, allora sopratutto che sono dense e fornite di alti redditi indipendenti, a prendere posizione a favore d'una concezione anarchico-dispotica dello Stato, ossia a negare nella sua base lo Stato moderno. In fondo una organizzazione economica di una certa estensione è già di per sé uno Stato in embrione, e anche, talvolta, in atto. La storia economica del dopo guerra è piena di esempi di questa statualitá nascente; esse possono, certo entrare in conflitto con lo Stato, che le circonda; ma avendo anch'esse, in comune con lo Stato, il carattere organizzativo, più facilmente possono adattarvisi o adattarlo a sé; e, in realtà, noi vediamo l'alto sindacalismo industriale e plutocratico trasformare e non sovvertire lo Stato moderno. Opposto è invece il caso quando ogni organizzazione, e possibilità e necessità di organizzazione, dell'economia venga a mancare. Non avendosi, in tali circostanze, alcuna interna gerarchia della massa dei redditieri, come è appunto fra le classi agrarie, non è naturalmente possibile trasferirle o compenetrarle con la oligarchia dello Stato. E allora: o anche questa è assente, e si cade in quelle manifestazioni di feudalismo localistico, di cui abbiamo attualmente esempio appunto nelle zone agrarie. Oppure una gerarchia centrale deve, in qualche guisa formarsi e sussistere; e allora, essendo essa estranea ai rapporti naturali dell'economia, avrà perciò appunto dei caratteri eminentemente autoritarii, coercitivi e, in conclusioni, dittatorii. Da tale punto di vista potrebbe forse trarre qualche chiarimento anche il permanere, in Russia, di un potere estremamente accentrato. Questo potrebbe avere, oltre al resto, il compito di creare una unità dal di fuori delle nuove decine di milioni di proprietari rurali, incapaci, per lo stesso frazionamento autonomo delle loro aziende, di crearne una qualsiasi. D'altro canto è visibile il parallelismo secondo cui a mano a mano che anche le classi rurali entrano nell'orbita della democrazia moderna, ovverossia statale, moltiplicano con consorzii, cooperative ecc. ecc. i proprii tessuti organici e connettivi, travalicando cioè in mille forme l'isolamento originario della proprietà. La Francia, la Germania si trovano già molto innanzi in questa ulteriore fase di sviluppo. E, alla loro volta, le esperienze del movimento socialista non sono senza significato. Essendo esso nutrito di spirito industriale e capitalistico, che vuol poi dire organizzativo, ne ha naturalmente improntato anche i problemi della economia agricola. La cooperazione di produzione e lavoro, infatti, in quanto è un coordinamento relativamente vasto di prezzi tecnici ed economici, è, a parte ogni altra considerazione, un superamento della piccola proprietà e dei dati anarcoidi, che le sono congeniti. Lo spirito statale nel movimento socialista si esprime anche sotto questo aspetto, senza riserve. Per converso è forse impossibile trovare un movimento reazionario, che non sia condotto a fare appello alle forze del piccolo e medio reddito terriero, o, in altri termini alla piccola borghesia campagnuola. Ma, sotto l'aspetto "democratico", tali appelli non mirano in realtà che a suscitare le forze che hanno avversato la formazione o sono divenute incompatibili con le esigenze organiche dello Stato moderno: al quale sono condotte, per forza di cose, a sostituire o il localismo tirannico,o il centralismo più spietato, o, come facilmente accade, e l'uno e l'altro nello stesso tempo. Non è difficile scorgere le analogie fra questa situazione e quella di cui, sotto parecchi aspetti e in larghe plaghe, si trova il paese. Due cose se ne possono desumere: da un lato la relativa naturalità dei fenomeni che stanno accadendo da qualche anno, e, dall'altro il profondo carattere di arretratezza che essi rivestono. Non è qui il caso di trarre delle conclusioni pratiche di natura troppo immediata. Basterà pertanto che, se dalla situazione presente si dovrà uscire, si potrà farlo nell'àmbito anche delle stesse classi borghesi: perché vi sono larghi ceti di queste, e precisamente i più produttivi e moderni, che non presentano affatto, almeno per le ragioni intrinseche della loro struttura economica, nessuna radicale incompatibilitá con lo Stato moderno. N. MASSIMO FOVEL
|