GIOLITTIANI IN RITARDO

    Molti democratici, socialisti, popolari che hanno creduto di scorgere nel dopoguerra la nascita di una vita politica italiana, a substrato democratico moderno, con la lotta dei partiti e degli interessi organizzati, col predominio delle forze ideali permanenti sulle forze personali mutevoli e corruttibili, molti di costoro, prima crudelmente feriti dall'insospettato avvento del fascismo, poi caldamente presi da una nuova speranza di rinnovamento dopo il delitto Matteotti, si domandano ora se tutte le loro previsioni non siano state antistoriche illusioni di apostoli mancati; e rispondendo affermativamente, nulla chiedono di meglio che la pace, l'ordine, il placarsi delle passioni in un giolittismo rinnovato. La prefazione di Mario Missiroli al "Colpo di Stato" è di questo stato d'animo diffuso un esempio significativo. Sospirano taluni, come ragazzi malati di romanticismo e di "spleen", la scorta ironica di un uomo smagato, freddo e sicuro, per accompagnare nei primi passi l'Italia decrepita e pure bambina.

    La Monarchia sovrasta nell'ombra, nella loro immaginazione, come unica garanzia di elementare ma sicura civiltà.

    Alla radice del fenomeno politico considerato nel suo complesso sta certo la ragione essenziale della depressione economica, più che mai paurosamente incombente.

    Considerata solo in rapporto agli uomini che hanno guidato le lotte politiche italiane in questi sei anni, la attuale sfiducia o tranquilla rassegnazione di molti, è la necessaria conseguenza delle smisurate speranze e delle grandi ingiustificate attese, coltivate con effimero slancio e con eccessiva fiducia. Anche nei migliori, l'abito di ragionare troppo facilmente con idee generiche, giocando con esse e maneggiandole come verità assolute mentre non erano che mezzi, forze, espressioni di tendenze, si è accompagnata necessariamente con la fiducia ingenua in una loro realizzazione quasi meccanica ed inevitabile. La speranza di Missiroli nella grande democrazia socialista nazionale era il naturale contrappeso del suo eccessivo timore per una opera della Monarchia diretta a svalutarla preventivamente col riformismo di Giolitti.





    La speranza è stata troppo viva e troppo ingenua, perché ingenuo era sperare nella vittoria della democrazia socialista, nell'Italia appena formata, in pochi anni di tumultuosa e caotica crisi postbellica; la delusione dopo l'attesa impaziente è così forte, che la forza monarchica temuta riappare non solo come completamente vittoriosa, ma anche come desiderabile, insostituibile e unica.

    In questa danza di due astrazioni si perde la visione di una realtà concreta più modesta e più complessa, meno suscettibile di balzi e di rivoluzioni, ma sola capace di progressi e di modificazioni. Con Missiroli i vinti confessi di oggi sono gli ideologi più o meno ottimisti di ieri; tutta la psicologia di coloro, che dalla guerra hanno molto sperato, che il dopoguerra hanno seguito con ansia buttandosi a corpo morto nella polemica o nella lotta, con la volontà decisa di arrivare ad una vaga rivoluzione e con l'ansia febbrile dello schiavo che coglie la occasione di una breve, terribile lotta di liberazione, dall'insuccesso della quale dipende la sua servitù definitiva, conduce oggi logicamente e necessariamente ad una constatazione di totale fallimento.

    Non si dichiarano vinti gli accomodanti, gli uomini sprovvisti di idee generali che continuano giorno per giorno su una strada che le contingenze immediate tracciano. E la vita politica italiana si impernia precisamente su queste due insufficienze, di ideologisti impazienti e di praticoni senza visioni larghe. Nei momenti di crisi e di stanchezza i primi, anziché infiammare e sostenere i secondi, si dichiarano affranti e sfiduciati; questi salvano il salvabile, ossia buttano a mare ogni precisa direttiva.

    Per impedire il trionfo dei moderati, vi è dunque più che mai necessità di moderazione e di chiarezza; guai se ogni piccolo mutamento appare ad occhi annebbiati come una grande crisi, ogni elementare urto di forze e di interessi anche meschini, un cozzo di grandi correnti immaginarie, ogni fatto di cronaca come una data storica.





    Per il passato, il più evidente aspetto di una mentalità approssimativa è stata la sopravalutazione che tutti hanno più inconsciamente compiuta delle conseguenze possibili della guerra sulla vita politica del paese; nello stesso tempo che questo veniva scosso, turbato dalla guerra in modo morboso ed effimero, le menti dei politici ne riportavano una impressione spasmodica e falsa.

    Ma se era giusto che nei periodi di facile e profonda risonanza di passioni e di azioni anche i migliori non rimanessero troppo indietro per eccesso di calma e di scetticismo, e cercassero anzi di dirigere i moti generali verso i fini che credevano più utili, ritenendo ad ogni modo dannoso il comprimerli; non era meno necessario che un fondo di spregiudicatezza e di cauta visione impedisse le illusioni, le chimere di cui i condottieri diventavano essi stessi, con le folle, seguaci.

    Non bisognava dimenticare che la guerra moderna è una realtà democratica soltanto nel senso che reca brutalmente grandi masse di uomini a contatto con le esigenze sociali, facendo loro intravvedere la esistenza di una vita comune cui tutti debbono qualcosa, dalla quale si può anche pretendere qualcosa. Ma tutto ciò non costituisce se non l'apporto di una materia grezza, la creazione di infinite possibilità di azione per le "élites", forti, abili e sapute; a seconda delle qualità dei capi, delle condizioni economiche, della generale coscienza politica questo contatto fra organizzazione sociale e massa di popolo può sortire in ultima analisi effetti democratici permanenti, o favorire invece il predominio della reazione più volgare, o, infine, presto quietarsi nella indifferenza primitiva. Non sempre cioè, il moto va oltre un passeggero ribollire di aspirazioni e di pretese, che prestissimo la stanchezza o la compressione fanno dimenticare.





    Nella realtà italiana era ben prevedibile, data la generale immaturità e la tendenza delle masse a placarsi nel soddisfacimento delle necessità primordiali, questa facilità di ritorno alla tranquillità attraverso l'oblio delle promesse di guerra, delle lotte e speranze di dopoguerra. Il prevedibile sta avvenendo, almeno nelle grandi linee, e di questa realtà bisogna tener conto senza perdersi dietro vane speranze di pronte azioni di masse; la sensibilità pronta con cui queste reagivano agli eccitamenti politici è sopita.

    Ciò non toglie però che qualcosa, di tutto questo ribollire, sia rimasto, su cui si può contare; esistono oggi in Italia gruppi di "élites" e formazioni politiche che hanno fatto la loro prova e si sono temprati resistendo a molti assalti, e che prima della guerra non esistevano. Realtà come il partito popolare, i nuclei superstiti del socialismo più propriamente operai, i nuclei di parlamentari risolutamente ostili al fascismo, non si possono disprezzare. Gruppi di "élites" intellettuali, repubblicani; democratici di vario colore permangono con azione più sentita. La politica non è più un lusso di borghesi ed un passatempo di amena lettura per la media borghesia, ma in alcune parti d'Italia ha vivamente toccato e interessato ceti ristretti, ma capaci. Questa è la realtà modesta, su cui si può contare; tale la visione semplice, chiara, non banalmente ottimistica e nemmeno tragicamente pessimistica, delle forze e dei sintomi che rimangono dopo le delusioni e le sconfitte delle varie correnti democratiche.

    Escludiamo dunque il dramma. Nel dramma, la sconfitta di Nitti sarebbe la sconfitta del tentativo democratico e rinnovatore del dopoguerra, mentre invece non è che la temporanea sconfitta di un uomo il quale ha creduto di poter poggiare una fortuna durevole sull'instabile fluttuare delle agitazioni postbelliche, senza la necessaria energia. Nel dramma, il primo ritorno di Giolitti sarebbe il ritorno puro e semplice della vecchia politica monarchico-riformistica, la doccia fredda sui cervelli accesi e sulle illusioni chimeriche; il vecchio ministro avrebbe saggiamente soddisfatto le più brutali esigenze delle masse con concessioni più apparenti che reali, per assicurare il ritorno della calma e della politica personale d'anteguerra. Viceversa il tentativo è fallito e vi sono molti indizi i quali fanno credere che non potrà più avere successo.





    Venendo infatti, a Giolitti, è ancora un segno di generale immaturità la reverenza profonda e timorosa che ispira quest'uomo, la cui impenetrabilità volentieri viene riempita di progetti profondi e di straordinarie lungiveggenze. L'uomo che dallo scoppio della guerra in qua è stato ripetutamente vinto, riappare di continuo novellamente come l'insostituibile vincitore.

    Anche qui la chiarezza e la moderazione gioverebbero a non dimenticare, che Giolitti segnò con la guerra il suo primo fallimento, essendo stato incapace di conservare in essa la guida dello Stato da lui formato in dieci anni di semi-dittatura; che il suo ritiro segnò una nuova sconfitta dei suoi metodi, rivelatisi insufficienti a contenere le forze democratiche tenacemente lottanti. Il veto di don Sturzo fu la fine di Giolitti, culminata clamorosamente nell'avvento al potere del fascismo, da strumento del governo giolittiano divenuto governo esso stesso, in antitesi almeno formale al giolittismo.

    Questi fenomeni furono precisamente causati dall'opera dei nuclei ristretti di "élites", che nel dopoguerra si erano venuti formando, e che sopravvivevano al progressivo staccarsi delle masse dalla politica. Il fascismo al potere obbligò questi nuclei direttivi a posizioni anche più precise e ad una unione anche più stretta; in questo senso esso fu nuovamente ed indirettamente antigiolittiano, cagionando il formarsi di quel blocco di partiti democratici che Giolitti non aveva mai permesso.

    La lotta delle opposizioni contro il fascismo è il fenomeno più nuovo e più promettente, malgrado le sue debolezze, che l'intero dopoguerra abbia dato. Oggi, per quanto impigliato in una lotta difficile il cui esito è incerto, il blocco permane, obbligato a vivere e ad agire dalle sue stesse origini e dal suo passato, ed il suo permanere deve essere una garanzia della impossibilità di un ritorno al giolittismo. Rimanendo perciò lontani egualmente dalle facili esaltazioni e dai dolorosi scoramenti, si possono ancora vedere nella situazione reali elementi nuovi, i cui sviluppi non possono essere se non nel senso di un superamento del giolittismo.

    Malgrado ciò, la riapparizione del trasformismo ed il suo aperto elogio non debbono stupire.





    Visto attraverso agli uomini, il fenomeno è più che spiegabile; non si lotta per lunghi anni, impegnando a fondo tutte le proprie risorse di pensiero e di attività dietro un miraggio che sempre si allontana, senza che ad un certo punto le forze tradiscano, e che di colpo, di fronte agli avversi avvenimenti, le forze vengano meno. Così si spiega che uomini nobilissimi, della cui sincerità e profondità non si può dubitare, pieghino il capo con una intima mal celata riluttanza che rende più triste e più nobile la loro confessione di sopravvenuta debolezza. Di fronte ad essi non vi è nulla da dire: il tempo ed i fatti soltanto potranno giudicare e valutare i loro varii atteggiamenti, e si può prevedere che essi saranno ricordati non per il loro rinsavimento, ma per la lunga e tenace lotta combattuta, per le idee e le illusioni in essa agitate.

    Come fenomeno generale, questo senso di scoramento, questo abbandonarsi e pentirsi, questo pullulare di "mea culpa", di confessioni, questo scoprire a un tratto la verità celata, e lodare il grande saggio che tutto ha veduto e capito e di conseguenza con larga paterna previsione ha agito, è ancora una espressione nuova, che attrista, di una sempre riaffiorante immaturità e impreparazione politica. Le crisi di coscienza, se individuali sono nobili e rispettabili, se diffuse tradiscono una incapacità condannabile e si traducono in ridicole crisi di nervi. Il compito di agire spetta ora a coloro che sono abbastanza giovani per non sentire il logorio delle lotte senza risultato apparente, ed abbastanza uomini per non lasciarsi prendere da femminei scoramenti. Ma anche a noi, questo periodo di pauroso abbassamento di tono e di insospettati abbandoni, deve insegnare qualcosa: insegnare anzitutto l'attaccamento vigile alla realtà e la diffidenza per i facili giochi delle idee. La seria cultura filosofica e la sana visione idealistica dei fenomeni storici, da cui il nostro movimento ha preso le mosse, e che nei più cauti di noi non è mai andata disgiunta da un senso profondo della necessità di riempire e modificare gli schemi al contatto della realtà, ha generato i altri meno compresi di ciò una abitudine dannosa al gioco delle ideologie, e una fede assurda nella loro efficacia sulla realtà.

    D'altra parte, tutto il movimento di modernità, che nelle opposizioni ha trovato la sua espressione e che in noi della "Rivoluzione Liberale" ha avuto dei propulsori, ha bisogno di precisare i suoi fini ed i suoi mezzi con una incessante rielaborazione dei dati e delle idee. L'Italia giolittiana, in un senso generico, incombe: è l'Italia povera, primitiva, impreparata e dispersa. Il problema di oggi è essenzialmente psicologico e pratico; non si tratta di ritirarsi ma di riaffermare, energicamente e istintivamente, la esistenza e la possibilità di sviluppo di forze politiche nuove e promettenti.

MANLIO BROSIO.