L'ANTISTATOInserirsi decisamente nel processo di disfacimento dello Stato, io credo sia compito necessario di quanti, come noi, desiderano un salutare rinnovamento della vita pubblica d'Italia, e per esso lavorano. Perché la crisi che da lunghi anni ci travaglia e che sta toccando ora il parossismo, è crisi che involge tutte le istituzioni statuali, è anzi principalmente crisi di Stato, manifestatesi nella forma dello Stato-partito. Non sarò io marxista, che negherò allo Stato il suo compito di tutore e difensore degli interessi delle classi dominanti; ma lo Stato fascista si assume anche un altro compito, esso "non solo si difende ma attacca!". In altre parole, lo Stato fascista non si limita a tutelare l'ordine costituito con un ordinamento giuridico all'uopo adatto, e nell'ambito del quale sia concesso alle forze contrarie di preparare il terreno per una nuova forma di convivenza sociale; esso rappresenta l'universo popolo, esclude che possa esservi un movimento a sé contrario o comunque diverso, e se qualcuno pur timidamente si mostra, tenta distruggerlo irrimediabilmente. Quando siam giunti a questo punto, quando tutti gli organi statuali, la Corona, il Parlamento, la Magistratura, che nella teoria tradizionale incarnano i tre poteri, e la forza armata che ne attua le volontà, diventano strumenti di un solo partito che si fa interprete dell'unanime volere, del totalitarismo indistinto e come tale escludente ogni ulteriore progresso, noi possiamo ben asserire che la crisi dello Stato ha toccato il suo estremo e ch'essa deve risolversi o precipitare. ***
Lo Stato fascista è precisamente lo sbocco d'un lungo processo di decomposizione che ha le sue origini remote forse nell'epoca dei Comuni, magari anche più in su, ma che certo si riattacca direttamente al Risorgimento e all'unificazione d'Italia. La quale fu conseguita, come ognun sa, non per diretta volontà ed azione del popolo, come augurava Mazzini, ma colle arti e colle armi della monarchia piemontese, divenuta in capo a pochi anni e senza modificazioni sostanziali, il Regno d'Italia. Unità dunque, ma fusione no: gli Italiani costituivano uno Stato solo, ma non ancora un popolo solo. Il centralismo diventava in tal guisa una necessità per mantenere unite le singole parti, ma noceva al libero sviluppo di esse, e sopratutto a quelle fra esse che si trovavano in condizioni più arretrate. Lo Stato soffocava le libere iniziative e toglieva la possibilità di una seria lotta politica. In queste condizioni la Monarchia e il trasformismo erano davvero i segni della nostra minorità, ché in una situazione simile non potevano certo attecchire le iniziative autonome e le correnti intransigenti. E' naturale quindi che, allorché sul cadere del secolo scorso, il movimento socialista cominciò ad affermarsi, essa apparisse come un pericolo di gran lunga maggiore di quel che fosse in realtà, poiché era la prima forza rivoluzionaria che da secoli, sia pur timidamente, si manifestasse in Italia, e poiché negava in pieno quell'ordine sociale sul quale sentiva, più per istinto che per riflessione, di non poter costruire. Ma poiché questo appunto era il pericolo per la classe dirigente e per lo Stato, esso vi provvide opportunamente. Il giolittismo fu l'arma migliore che lo Stato monarchico potesse trovare per assorbire le nuove forze che sarebbero state altrimenti minacciose. Io non oso dare ancora un giudizio definitivo sul giolittismo: certo però considerarlo come un fascismo in tono minore mi sembra far violenza alla realtà. Il giolittismo fu caratterizzato dalla mancanza di forze antistatali e capaci di impegnare il popolo italiano in una seria lotta politica. Facea difetto insomma quella coscienza rivoluzionaria che è necessaria a tener deste le energie di un popolo: tutte le forze, anche se apparentemente contrastanti, miravano però ad un medesimo fine, sia pure per diverse strade. In altre parole, in luogo dell'intransigenza nell'affermazione di sé stesso e nello sforzo della lotta, si preferivano l'accomodantismo e i1 compromesso, questi due fiori squisitamente italici. Ma è certo nondimeno che lo Stato monarchico-giolittiano pagava la complicità del socialismo ufficiale con un paternalismo riformistico che giungeva sino al suffragio universale: riforma questa d'importanza capitale, se si pensa che, attraendo nell'orbita dell'azione giolittiana masse sempre più vaste, legava quella a queste sempre più strettamente e contribuiva così potentemente a spingere il paese sulla via della monarchia socialista. È ozioso ricercare ora se una cosiffatta situazione, in cui gli elementi che avrebbero dovuto esser rivoluzionari apparivano invece come i più validi strumenti di conservazione e con ciò si tarpavan le ali per un vero progresso, è ozioso, dico, ricercare ora se una cosiffatta situazione avrebbe potuto superarsi, cioè rovesciarsi, pacificamente, in virtù d'una crescente prosperità economica (della quale in parte va dato merito proprio al governo giolittiano), che, permettendo il rafforzamento delle masse, le affrancasse dal peso dell'alleanza e le rendesse capaci d'uno sforzo autonomo, - o se per contro il legame era ormai divenuto così saldo e la corruzione così vasta da rendere assolutamente necessario un colpo di violenza per precipitare gli eventi. Sta di fatto che la situazione si risolse proprio nel modo che potrebbe apparire il più logico a chi volesse seguire le vie spesso fallaci dell'astratto ragionamento: divenuto il socialismo partito di conservazione riformistica, le classi possidenti ed agrarie divennero alla lor volta partito di sovversione reazionaria. E così sorse nel radioso Maggio 1915 il fenomeno fascista come insurrezione della piazza contro il Parlamento uscito dal suffragio universale, da quelle elezioni che i retori del nazionalfascismo avean così spesso e volentieri battezzato analfabetiche. Il giolittismo era caratterizzato dalla mancanza di forze antistatali, cioè dall'assorbimento di tutte le forze realmente efficienti nell'ambito dell'azione giolittiana poggiante quindi sul consenso di una strabocchevole maggioranza. Il fascismo invece è caratterizzato dalla soppressione delle forze antistatali. Strappando con la violenza il potere al giolittismo, esso spezzava in pari tempo l'alleanza di questo col socialismo, il quale diventava per ciò stesso libero di agire su un terreno proprio. Ma questo non poteva essere di alleanza col nuovo regime, che avrebbe con ciò solo rinnegato le sue origini avviandosi esso pure verso la deprecata monarchia socialista, e non poteva essere nemmeno di lotta aperta che avrebbe innanzi tutto richiesto un'educazione politica la cui lunga pratica del giolittismo e l'insufficiente e diseguale sviluppo della nostra economia rendevano incapaci gli Italiani. Escluse queste due vie, una terza dovea pur scegliersi, e il fascismo usò l'arma traversa della frode. Tutta la sua azione, anche la distruzione violenta delle organizzazioni che avrebbe potuto apparire brutalmente sincera, è ingannevole e fraudolenta, perché tale era ed è l'anima ispiratrice del fascismo; l'equivoco della Nazione, nel cui seno debbonsi far tacere gli antagonismi e conciliare i contrasti. Questo processo, s'anco non appariscente, era già compiuto nel 1915. Il socialismo interventista, cioè nazionale, di Mussolini, il "Popolo d'Italia" autoproclamentesi l'organo dei produttori, cioè di tutti coloro che contribuiscono col capitale o col lavoro al processo di produzione, costituivano già allora il nocciolo del fascismo. Il quale già allora aveva trovato comodo di mostrarsi - ma che dico? - era sorto per una sua intima necessità come fenomeno apparentemente rivoluzionario (non erano proprio i pescicani e i profittatori che strombazzavano sui loro organi e facevano strombazzare dai loro lacchè la guerra rivoluzionaria?), interpretando il bisogno delle classi medie che per uscire dal disagio su di esse incombente sentivano il bisogno di fare la loro rivoluzione. Queste classi medie erano infatti le naturali alleate del fascismo. Impreparate, incompetenti, retoriche, esse avevano tutto da perdere da una seria e cosciente lotta di classe, di cui esse pure in Italia erano per mille ragioni incapaci, e che pertanto non poteva che rivolgersi a loro danno, avvantaggiando il proletariato. E queste classi che, imbevute di idealità democratiche e patriottarde, si sarebbero forse trovate a disagio accanto ad una reazione più o meno seria, ma franca ed aperta come quella di Crispi o Pelloux, si posero a fianco della battaglia fascista, che in nome della Patria colpiva il proletariato. Il mito della Nazione sovrastante le classi era il loro mito, era l'espressione dell'impotenza politica dei ceti di mezzo, che odiavano il contrasto e volevano una soluzione equidistante dai due estremi. Non essendo in grado di agire d'iniziativa propria, le classi medie appoggiavano il fascismo, sperando, a vittoria conseguita, una mancia competente. Ma più che dal loro appoggio passivo, il fascismo traeva la sua forza dalla propria massa di manovra. Era anche questa una classe, confusa ed amorfa fin che si vuole, la classe degli spostati, che trovavano finalmente la loro professione. Spostati per natura loro, come i pazzoidi, gli esaltati, i futuristi, i poetastri o gli artisti falliti, i mediocri aspiranti alla celebrità; spostati per circostanze d'ambiente, come i disoccupati e i miserabili: tutta gente che in altri tempi e in altre circostanze, sotto la pressione degli stessi bisogni, aveva dato vita al brigantaggio o alla camorra, ed ora trovava comodo d'inquadrarsi nel movimento fascista. Era, esso, anche una forma di reazione alla miseria e alla disoccupazione in Italia, che nel 1915 non aveva potuto svilupparsi completamente; ma che nel dopoguerra, gonfiatasi la classe degli spostati, assunse proporzioni gigantesche. Sostenuto da queste classi e da questi interessi, il fascismo mirava, e in questo sta la sua netta differenziazione dal giolittismo, a stroncare tutte le forze antistatali. L'ibrida artificiosità della sua formazione toglie al fascismo la possibilità di vivere in un ambiente risanato in cui contrastino in forme civili interessi reali e vitali armati di potenza economica e intellettuale; ma ad evitare che un tale ambiente si formasse, ..... già visto ed esso non poteva ricorrere all'accomodantismo giolittiano, ma doveva tentare la soppressione fraudolenta delle forze organizzate. L'azione del fascismo si completa e si integra col sindacalismo nazionale, che non è semplicemente un'idea fissa di Edmondo Rossoni, ma é una intima necessità del fascismo, il quale, per poter giungere a soffocare, come aveva fatto il giolittismo, le forme modernamente libere di lotta, deve pur inquadrare nelle proprie file anche le masse lavoratrici, ch'esso vuole non semplicemente legate da un patto d'alleanza che imponga anche a lui qualche dovere, ma incondizionatamente sottomesse. Ed ecco qui entrare in giuoco il mito piccolo-borghese della Nazione: la Nazione ipostatizzata che trascende individui e gruppi, nel cui seno son soppressi i contrasti e che quindi deve comprendere tutto il popolo indifferenziato. Ma una cotale egualizzazione dei vari ceti indistintamente confusi in questa mitica Nazione suppone una base democratica che é in stridente contrasto colla natura stessa del fascismo; e questo allora vi supplisce coll'apparenza, colla vernice della democrazia, che è retorica e demagogia. Non vantò il Duce come il non plus ultra della democrazia i suoi colloqui diretti col popolo? Il fascismo ha così posto tutti i suoi principi: soppressione di ogni contrasto per il bene superiore della Nazione identificata collo Stato, il quale si identifica a sua volta cogli uomini che detengono il potere (Stato fascista) (1). Questo Stato è il Verbo, e il suo Capo è l'uomo mandato da Dio per salvare l'Italia; esso rappresenta l'Assoluto, l'Infallibile. Qui veramente la divinizzazione hegeliana dello Stato non poteva trovare migliore applicazione, e non fu mero caso che il filosofo del fascismo fosse per l'appunto hegeliano, come non fu mera ambizione o brama di potere che trasse il Gentile dal liberalismo al fascismo. Ma una volta posti questi principi, lo Stato può tutto: ogni opposizione al fascismo è veramente tradimento della Nazione, ogni delitto fascista si giustifica (fine nazionale). Mussolini è stato incoerente quando ha cercato di allontanare dal fascismo la colpa dell'assassinio di Matteotti. Egli ha rinnegato con ciò le ragioni ideali del movimento fascista, quelle ragioni ideali che invece difendeva e interpretava Giovanni Gentile quando usciva dal Ministero per sottrarsi, secondo quanto di lui ha narrato Ugo Spirito, alle necessarie transigenze della vita pratica e darsi all'elaborazione del fascismo integrale. ***
Ora se noi vogliamo veramente che la nostra lotta sia lotta di stile, se non vogliamo adoperarci a creare in Italia un abito d'intransigenza politica, contrario ai connubi, alle combinazioni, ai blocchi, noi dobbiamo augurarci che le forze di loro natura antistatali sappiano essere all'altezza del loro compito. Non già ch'esse debbano irrigidirsi in uno sterile rifiuto dello Stato come gli anarchici, o cercare solo di inutilmente esautorarlo, come certi socialisti nell'immediato dopoguerra. La loro lotta dev'essere lo sforzo cosciente delle energie rivoluzionarie che s'affermano di contro allo Stato, reclamando le loro autonomie. Esse negano, sì lo Stato, ma lo inverano appunto in quanto lo negano, perché solo superandolo in questa forma, gli Italiani potranno giungere alla coscienza dello Stato moderno. Da troppi secoli avvezzi a lasciarsi passivamente rimorchiare, gli Italiani possono conquistare la propria dignità di cittadini, soltanto in questa lotta. Sono le autonomie locali e sindacali che è necessario affermare: il regionalismo da un lato, dall'altro una maggior libertà dei sindacati di affermarsi nella loro lotta di classe. Questi due movimenti sono stati sin qui affatto separati; oggi essi devono sentire la necessità di unire le loro energie per sollevare le masse in uno spontaneo sforzo creatore. Non basta più perdersi nella critica di dettaglio allo statalismo invadente, non basta più negare allo Stato il diritto di compiere questa o quella determinata funzione. Si tratta di combattere in pieno la battaglia antistatale. Si tratta di richiamare le masse alle loro esigenze autarchiche: soltanto nell'affermazione inflessibile di queste aspirazioni esse plasmeranno la propria educazione politica. Oggi il centralismo, in questa Italia politicamente minorenne, non può essere che paternalismo, cioè dittatura e diseducazione. E' necessario lasciare che si sprigionino liberamente le energie che diedero qualche sprazzo nell'immediato dopoguerra e che noi speriamo non siamo ancora soffocate malgrado la lunga compressione: preoccuparsi se ciò avverrà con qualche disordine, e col turbamento del solito tran-tran della vita politica italiana è degno di reazionari. Noi auguriamo che lo sciopero legalitario del 1922 abbia chiuso per sempre l'era in cui in Italia avevamo questo assurdo politico: che un partito di sua natura rivoluzionaria, e con mezzi essenzialmente rivoluzionari, si facesse custode della più ortodossa legalità contro i cosidetti partiti dell'ordine. Solo a questo patto sarà superato l'equivoco. Solo a questo patto sarà per sempre debellato il fascismo. PROMETEO FILODEMO
Nota. L'affermata esigenza che le masse lavoratrici inizino una decisa battaglia antistatale ed anticentralista, autonomista in una parola, esclude di per se stessa l'opportunità che il potere centrale conceda senza contese questa autonomia, oggi o in un prossimo domani. Noi non possiamo dimenticare che il rassismo fascista è il primo esempio di regionalismo in Italia ed è la prova di un indistinto bisogno degli Italiani alle autonomie locali. La lotta da me sopra auspicata dev'essere lotta cosciente e sopratutto seriamente combattuta dall'una e dall'altra parte. Quel che importa oggi, e che sarebbe già una gran conquista per gli Italiani, è che si formino e s'inquadrino delle forze decise e capaci a condurre questa battaglia. |