BIANCHI E ROSSI IN MONGOLIA

    Di rimando, come ormai è pacifico che debba capitare all'Italia, alla Spagna e ai Paesi balcanici, ci è arrivato, tradotto in francese, un libro di Ferdinando Ossendowski, che nei paesi di lingua inglese e tedesca faceva clamore da un anno e più: Bestie, Uomini, e déi.

    L'autore è uno scienziato, chimico e ingegnere minerario polacco, che fu, dopo le sue prime armi di studioso e di tecnico, alla testa dei rivoluzionari siberiani nel 1905 e capo del Governo provvisorio di Kharbine. Caduto nel vuoto quel famoso tentativo separatista, Ossendowski si ebbe solo una lieve pena, e subito nella guerra russo-giapponese lo ritroviamo alto funzionario dello Zar, non si capisce come, e avviato a una brillante carriera: allo scoppio della guerra europea era consigliere tecnico, fra l'altro, del Consiglio superiore di marina, e aveva per giunta sulla coscienza una lunga filza di lavori scientifici. Ma non pare che la nuova guerra gli abbia portato altrettanta fortuna: perché la rivoluzione leninista lo trovò soltanto professore al Politecnico di Omsk: e di qui l'ammiraglio Koltciak lo trasse per giovarsene nella costituzione del suo effimero governo "bianco". La fuga con cui Ossendowski si salvò dai bolscevichi vincenti lo riportò, attraverso tutta l'Asia orientale, in Europa e nella sua Polonia: così lo abbiamo visto alla conferenza di Whasington, e poi a Parigi dove pubblicò un libello antisoviettista in occasione della conferenza di Genova: ed ora è all'università di Varsavia.





    Nel gennaio 1920, dunque, Ossendowski dovette fuggire da Krasnoïarsk: i "rossi" non lo avrebbero risparmiato. Ma prima di arrivare, per la Mongolia, alla ferrovia mancese ed al mare, ci volle una tale odissea, e così ricca di avventure e di esperienze, che il profugo ha potuto cavarne questo libro e parlarci così di un mondo da noi quasi ignorato, di fatti recentissimi che rimanevano senza il minimo sentore in Occidente ed erano tuttavia cose grandi. Lotte di razze, urti di popoli, gesta di condottieri e congiure di monaci: tutto un vasto romanzo storico di barbariche tinte è stato vissuto in Mongolia tra il '19 ed il '21: qualche cosa di simile a quello che avvenne, con maggior conoscenza nostra, nel Turkestan e nel Caucaso. Donde il sostanziale interesse, per noi, di questo racconto di avventure contemporanee: ché non staremo certo a estasiarci, come hanno fatto i critici, per la figura di "nuovo Robinson" con cui si presenta Ossendowski, costretto a vivere un inverno sulle rive dello Jenissei da eremita, con lo schioppo continuamente in ispalla per cibarsi di selvaggina, difendersi dagli orsi e premunirsi dai "rossi"...





    Ma constatiamo che Ossendowski non sa scrivere: che il suo récit è asciutto asciutto come una relazione d'inchiesta mineraria: che, tutto insieme, quello ch'egli dice ha davvero l'apparenza della verità. Tanto più che il profugo non si lascia nemmeno andare a volontarie invettive contro i "rossi", e mostra di riconoscere, tra i denti, tutta la forza della loro immediata espansione in Oriente. Si aggiunga che le ampie notizie sulla vita in Mongolia e sul buddhismo in quelle regioni rendono paragonabile Bestie, uomini e dèi, ("si parva licet") a Trois ans en Asie e a Religions et philosophie dans l'Asie centrale di Gobineau.

    Noi pensiamo, consuetamente, che la Mongolia sia una provincia cinese, delimitata da netti confini e organizzata, (o disorganizzata) come una marca di frontiera. Illusioni di occidentali. La Mongolia non ha frontiere se non sulla carta geografica: in Mongolia entrano e sconfinano tutti, in Mongolia comandano tutti, alternandosi da luogo a luogo e da tempo a tempo. Questi "tutti", erano nel 1919, precisamente: i tartari e i tibetani delle regioni finitime, il governo cinese, i russi di Koltciak rifugiati oltre l'Altai e riorganizzati dai loro stessi ufficiali, i bolsceviki che davano la caccia ai "bianchi", l'organizzazione monacale del Buddha vivente di Urga, i commercianti, i consolati americani, e infine anche i mongoli. Un guazzabuglio straordinario.

    Nel 1911 i Mongoli veramente, si ribellarono una volta ancora al giogo cinese (i cinesi appaiono, anche nel guazzabuglio suddetto, i più esperti di politica coloniale): la ribellione, aiutata di sotto mano dalla Russia zarista, non andò troppo bene per loro: ma la Cina riconobbe, per imposizione russa, una specie d'autonomia mongola, consistente soprattutto nella esenzione dalle imposte, nella riduzione delle guarnigioni cinesi, e nel riconoscimento dei costumi mongoli in fatto di usi giuridici patriarcali. I trattati del 1912, 1913, 1915 fra Cina e Russia fissavano inoltre delle frontiere precise, che ancora adesso servono ai geografi.





    Ma con la guerra europea tali condizioni di apparente stabilità scomparvero rapidamente. Approfittando della difficile situazione russa, i cinesi cominciarono a violare il trattato nei riguardi della indipendenza mongola, ripristinando via via nel paese i loro commissari e le loro guarnigioni di mercenari Unni, e pretendendo l'esazione delle imposte soppresse dal regime di autonomia. Ma poi, col 1918, un nuovo invasore si aggiunse: i bolsceviki, intenti a insinuare la loro propaganda, i loro agenti segreti, infine lo stesso sovietismo nel paese. E nel 19-20 i "bianchi" fuggiaschi dalle sconfitte siberiane: e dietro a loro non più gli agenti, ma le truppe armate dei "rossi", col pretesto di raggiungere i ribelli di Koltciak nei loro rifugi. L'invasione bolscevica fu in quell'anno così forte, che riuscì a fondare in Urga, la capitale della Mongolia esteriore (e città santa del buddhismo settentrionale come residenza del Buddha vivente), un "Soviet" dominatore.

    A questo punto sorge nel travagliato paese la volontà impetuosa di un uomo strano ed eccezionale: il barone Ungern von Sternberz, succeduto a Koltchak nel comando dei rottami dell'armata "bianca". Ungern ebbe un colpo di genio e di audacia: si presentò come convinto buddhista della setta mongolico-tibetana, e riorganizzò in una forte divisione di cavalleria i suoi militi sbandati, con la bandiera dei volontari per l'indipendenza mongola contro i Russi ed i Cinesi. Tutta la vecchia Mongolia fu, durante alcuni mesi per lui: i monasteri ricchi e potenti, le tribù indigene, i vecchi ribelli del 1912 videro in lui il salvatore e lo appoggiarono in ogni modo. Il 3 febbraio 1921 Ungern riuscì a prendere Urga, e divenne con le sue bande momentaneo signore di tutta la marca di confine. Governava da barbaro, come fosse un discendente di Gengis o di Timur-len: e più barbarici e feroci erano i suoi luogotenenti, talora quasi briganteschi. La tenda del generale aveva sempre, in perfetto stile tartaro, qualche pozzetta di sangue fresco sull'entrata, qualche altra nell'interno: Ungern faceva giustiziare in sua presenza le persone sospette, da un ufficiale che le accompagnava a... parlargli. E in perfetto stile cinese, pugnale e veleno regolavano la vita del suo esercito. Non importa che i suoi saccheggiassero le contrade, dovunque ciò non era troppo pericoloso: Ungern aveva restituito alla Mongolia l'indipendenza, Ungern era ammesso quando voleva a visitare il Bogdo-Khan, capo spirituale e un po' anche temporale di quelle regioni (in quanto egli è, appunto, il Buddha vivente, ultima incarnazione di Buddha), Ungern aveva cacciato i bolsceviki e teneva a posto le lunghe mani di Pekino. Ma nel settembre 1921 l'eroe volle tentare una nuova spedizione antisovietista per rientrare in Siberia: i bolsceviki lo batterono, lo presero, lo fucilarono. E la breve ora di questa rinascita dell'antica Mongolia per mano straniera è quindi ormai da quattro anni finita.





    Se vogliamo farci un'idea di quello che fosse la vita, in così fortunoso periodo, lassù fra gli Altai, l'Amur, e il deserto di Gobi, - seguiamo un episodio del racconto di Ossendowski: la sua residenza a Uliassutai. Urga è già presa dai "bianchi": ma qui, a marzo, non se ne ha ancora notizia. Il commissario cinese intercetta tutti i messaggeri: ma intanto passano bande di mercenari al soldo del suo Governo, massacrano e saccheggiano: si sente da lontano il crepitio delle scaramucce fra "bianchi" e "rossi": la guerriglia dei ribelli mongoli, guidati dal calmucco Tusc'gun, il "misterioso Lama vendicatore", si scatena nelle lande e nelle foreste, e intercetta a sua volta i messaggeri cinesi. La piccola cittadina, in mezzo a questo caos, si fraziona in tanti gruppi: ciascuno sta sul qui vive. I Cinesi armano coolies e commessi, e la plebaglia; i bolscevizzanti si tengono in guardia, pronti all'offensiva; gli altri stranieri si organizzano, i Mongoli si risvegliano. Si sa che i Cinesi preparano un pogrom contro tutti gli altri. Una notte, anzi, la teppa ai loro ordini, già padrona della città a chiaro giorno, si raduna a comizio por decidere il colpo. Fortunatamente un agguato di Tusc'gun coglie il caporione dei violenti: e arriva la notizia della presa di Urga. La scena cambia di colpo: i "bianchi" sono vicini, prendono il sopravvento. Allora si viene a un patto di pacificazione tra i Cinesi e gli altri: il capo dei "bianchi" non lo vuol riconoscere: i Cinesi sono costretti a implorare pietà e rispetto per i trattati. Non c'è dubbio tuttavia sulla solidità del loro spirito "coloniale": nei giorni felici, i loro assoldati "arrêtaient e fouillaient les passants, cherchant à provoquer des rixes". Francamente, ci eravamo foggiati un ideale più pacifico dei... Cinesi.





    Ma per un'idea ancora più interessante di questo leggendario barone Unberg von Sternberg, ecco la sua presentazione, - nella sua famosa tenda. "Comme je passai le seuil, un homme vêtu d'une tunique mongole en soie rouge se précipita sur moi comme un tigre, me serra la main d'un air pressè, puis se retira sur le lit qui se trouvait d'un côte de la tente. "Dites moi qui vous êtes,. Tout autour de nous il y a des espions et des agitateurs!" s'écria-t-il d'une voix pençante et nerveuse...".

    Il barone racconta, più tardi, la sua storia a Ossendowski. Si dichiara discendente di una famiglia baltica, mezzo tedesca e mezzo unna; i suoi antenati furono alla testa dei Cavalieri Teutonici, che imposero col ferro e col fuoco il cristianesimo ai Lituani e agli Slavi del Nord. E continuarono ancora, gli Ungern, a esercitare la guerriglia di bande e la pirateria, - per secoli. Quest'ultimo rampollo, ufficiale di marina, ha fatto la guerra russo-giapponese, è entrato in contatto con la vita orientale, è diventata buddhista. Di un buddhismo tutto suo speciale, si capisce: mezzo cristiano, e apocalittico: con citazioni di Bergson: con toni di fatalismo affatto mussulmani. Fuori della sua tenda, sta la pozza di sangue: i suoi ufficiali avvelenano o fanno strozzare gli individui sospetti: e lontano, tra le montagne, vanno al cielo bagliori d'incendio. Ma Ungern, "dio incarnato", esce dalla tenda, sale in automobile, e va a far visita al Buddha vivente.

    In fondo, sono fratelli: il figlio dei cavalieri dalle grigie armature, che nella piana di Memel o nella selva di Tannenberg ardevano in pia offerta i Lituani captivi, chiusi in gabbioni di legno e di sassi: e il Lama supremo, vestito di seta azzurra e gialla, che con la fronte madida per gli spasimi del vaticinio riceve la rivelazione del futuro, mentre i suoi messi gettano un nero e sottile cappio serico alla gola di un temuto rivale.





    Le conclusioni di questo "capitolo" sono almeno tre.

    Prima di tutto è evidente che tutte le fantasie apocalittiche di nuove invasioni barbariche con la quali si dilettano molti profeti da strapazzo sono fondate sulla cenere. Siamo noi, Europei, che invadiamo, per adesso. Soltanto si può constatare che il fuoco cova sotto la cenere. Ed è anche evidente di quale materia fluida e galvanica s'impasti la politica orientale dei bolsceviki: e come almeno fino ad oggi, la loro fortuna laggiù scaturisca dalla capacità russa di "penetrare" moralmente, prima ancora che politicamente, nel cuore dell'Asia: non del tutto, ma quanto basta per immediati vantaggi. Quello che fece Ungern quattro anni fa, ora lo stanno facendo, a lor volta, i Sovieti.

    Conclusione seconda: che ci sono ancora paesi e uomini che vivono la vita barbara, la caccia feroce, il selvaggio hallalì. Ma questi uomini e questi paesi non ci danno più nesssun senso di dignità e di forza: e appaiono contaminati da un'insita debolezza, da un tremore segreto che fiacca le membra.

    Conclusione terza. Al fondo, e nello sfondo, di tutto questo maremoto di alterne sopraffazioni e di vicende politiche, sta pur sempre la vecchia Mongolia. I prìncipi religiosi de' suoi monasteri introducono il telefono nei loro padiglioni, e concupiscono l'automobile: ma i poveri, piccoli monaci continuano a meditare, a scrivere, a girare il rullo delle cento preghiere. Cinesi, Russi, Americani si contendono la lana delle sue pecore, il salnitro de' suoi deserti: ma i cavalieri cenciosi, che un giorno seguirono Gengis verso il trionfo, passano ancora tra gli obo di pietra che sorgono nella pianura desolata e sulle colline brulle, e mormorano i sacri scongiuri dall'alto dei loro cammelli, e ripetono a bassa voce le leggende demoniche dei loro padri. Sono pochi, sparuti, e poveri, ma la loro fede è intatta, la loro tradizione è pura. E lo traniero che siede al focolare non è tradito dall'ospite. Dalle coscie di montone e di capretto che arrostiscono omericamente sugli schidioni, sale un fumo odoroso: ai bagliori del fuoco, i1 Mongolo vi scorge divini presagi. Poi esce, e s'inginocchia sulla terra gelida: appoggia l'orecchio al suolo, sente se il Re del Mondo, nel suo palagio sotterraneo, stia pregando per i destini del mondo, preparando la sua venuta.

SANTINO CARAMELLA