LETTERA DI UN QUARANTENNE

    Noi siamo, senza dubbio, degli anti-fascisti, ma il nostro anti-fascismo si colora di motivi così spiccatamente propri e spirituali che non può, non vuole, e non deve essere confuso coll'anti-fascismo del tutto contingente dei partiti politici e di quella che, oggi, si costuma chiamare l'opposizione anti-nazionale. E' necessario, quindi, che si spieghi qui subito chi siamo noi; e poiché questa spiegazione siamo noi stessi a darla, esse acquisterà, così, in certo modo, un carattere di confessione pubblica, che, equilibrando il tono della inevitabile requisitoria contenutavi, varrà, almeno io lo spero, a togliere a questo scritto il carattere del pamphlet; che esso non vuole e non intende avere.

    Noi, dunque, siamo e vogliamo essere qui, in confronto del fascismo, gli ideologi; e accettiamo volentieri e non senza una punta di orgoglio quanto di sprezzante vi può essere in questa parola quando essa venga pronunciata da un procacciante della politica, da un commesso di droghiere o da un appaltatore di lavori pubblici. Noi siamo gli ideologi e gli intellettuali; figli della cultura del nostro tempo, guardiamo con favore al nuovo, amiamo, forse, più lo sforzo attivo che il risultato concreto, ma abbiamo anche il senso dell'equilibrio e delle grandi architetture logiche, possediamo il gusto estetico delle costruzioni filosofiche e il senso matematico delle belle teorie che si svolgono, quasi, con ritmo musicale; siamo pronti, insomma, a giustificare in linea astratta qualunque teoria, ma abbiamo anche il gusto della dialettica e la nostalgia invincibile della critica demolitrice. Ma, sopra tutto, noi non disprezziamo il fatto, ed il nostro apparente eccletismo, sotto questo riguardo, è giustificato proprio da ciò: Che noi in ogni fatto, al di sotto dell'apparenza bruta e meccanica della materialità, amiamo cercare un riflesso dello Spirito.





    E, cavalieri, dello Spirito, noi muoviamo pei vasti campi del Pensiero, in cerca di sempre nuove avventure spirituali, armati soltanto delle armi sottili della critica; ma il nostro smagato scetticismo, che ci salva a tempo dagli atteggiamenti donchisciotteschi e tartarineschi, ci permette ancora di intravedere, in fondo alla selva selvaggia della nostra vita intellettuale, un lume piccino e lontano, come nelle favole della nostra beata puerizia, ma un lume che basta, tuttavia, per guidarci e per non farci smarrire il cammino.

    Tali siano noi, ma se questo è, appunto, il nostro carattere, perché mai, dunque, siamo anti-fascisti? Perché questo movimento, che pure si è presentato come uno sforzo vigoroso di rinnovazione, con un aspetto baldanzosamente rivoluzionario e coll'apparato brillante di una organizzazione militare, che avrebbe dovuto, almeno, soddisfare la nostra insaziata curiosità del nuovo e il nostro gusto estetico, ci riesce, invece, così profondamente avverso, e ci trova così decisamente ostili?

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    Opposizione di istinto, si dice, antifascismo etico, opposizione di élites intellettuali. Vi è del vero in tutto ciò, senza dubbio, ma, a parte che queste spiegazioni, appunto perché sono tutte vere, non possono darci, ciascuna singolarmente, tutto il vero, a parte, dicevo, questo, vi è un fatto fondamentale di cui bisogna tenere conto.





    La nostra opposizione, a differenza di quella dei partiti politici, che sono avversi, ciascuno per motivi speciali e contingenti, la nostra opposizione ha carattere assolutamente integrale. E' una opposizione sentimentale, una antipatia psicologica, l'inverso, insomma, di quella affinità elettiva di cui parla Goethe. Se così è, anche è chiaro come sia impossibile ridurre questa opposizione ad una formula: Il metodo sintetico qui non vale e fallisce; occorre, invece, il metodo analitico, il metodo principe della psicologia.

    Ed è perciò, come ho detto avanti, che questo scritto non vuole essere un pamphlet, e nemmeno una semplice requisitoria contro il fascismo, ma piuttosto l'analisi di una stato d'animo: Attraverso, insomma, i motivi della nostra opposizione al fascismo, cerchiamo qui, sopra tutto, di prendere coscienza di noi stessi.

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    Noi siamo pronti a giustificare il fatto, anzi ogni fatto, non per servile adorazione della realtà bruta, ma perché in tutto ciò che si è realizzato amiamo trovare un riflesso dello Spirito creatore. Ma invano nel fatto storico del fascismo noi ci affatichiamo a trovare questo riflesso, questa luce interiore che illumina e trasfigura l'opaca materialità dei fatti. Invano noi tentiamo di raggiungere e individuare l'anima del movimento fascista, invano tentiamo di colpire la sua essenza spirituale. In questo organismo, pur così vasto, potente e formidabile, all'apparenza, noi ravvisiamo, come in un mostro apocalittico o ariostesco, mille caratteri contraddittori, ma non riusciamo a trovarvi il segno dell'individualità e il crisma di quella effige divina impressa dal Demiurgo nel fango dell'Adamo originario. È quello che Benedetto Croce, con diplomatica prudenza, che non lo ha salvato dalla canéa del vituperio, ha voluto dire quando ha affermato che nel fascismo vede, bensì, un cuore, ma non anche un cervello.





    Ma questo, a ben vedere, non chiarisce ancora il problema della nostra opposizione, perché noi, pur negandogli un contenuto spirituale, potremmo, tuttavia, giustificare il fascismo, riducendolo al piano della politica quotidiana; e allora potremmo anche comprenderlo, così come comprendiamo il socialismo, la democrazia, il partito popolare e il resto, come schemi necessari cioè per l'azione pratica. Ma il fascismo, ed è questa la sua posizione caratteristica rispetto a noi, si rifiuta di essere considerato alla stregua degli altri partiti, si offende se lo si vuol ridurre al comun denominatore della politica pratica, e si vuole porre, invece, come una palingenesi storica, ci si vuole imporre come un sistema filosofico, vuole essere ammirato come un movimento di idee oltre che come un movimento di masse.

    Ed ecco la radice profonda, l'intimo motivo psicologico della nostra opposizione: Perché, nel momento stesso in cui noi siamo condotti a postulare il fascismo come un movimento di idee, in questo stesso momento e per questo fatto medesimo noi ci sentiamo autorizzati a subordinarlo alla nostra critica; come movimento di idee esso ricade ipso iure nella nostra giurisdizione intellettuale, e, noi, senza bisogno di speciale investitura, ci sentiamo in diritto di costituirci, illic et immediate, Foro competente a giudicarlo secondo le norme della nostra dialettica, alla pari di tutte le altre ideologie che si presentano dinanzi al nostro tribunale.

    Ma il fascismo, ed è qui tutto l'assurdo della sua pretesa, nel momento stesso in cui invoca implicitamente il nostro giudizio si ribella ad esso; non gli è sufficiente di mettersi sullo stesso piano con noi, vuole anche starci al disopra. Noi, insomma, ci troviamo di fronte non ad un sistema che chieda la critica razionale e spassionata del pensatore, ma ad un domma che pretende l'humile obsequium del catecumeno e la fede cieca del carbonaro.





    La nostra posizione rispetto al fascismo è proprio quella degli eretici medievali rispetto alla Chiesa, ma, mentre quelli avevano, almeno, la dottrina della doppia verità dietro cui rifugiarsi, alla nostra eventuale prudenza nemmeno questo ultimo rifugio la nuova Chiesa trionfante sarebbe disposta a concedere. Perché noi non possiamo neppure salvare l'anima nostra accettando il fascismo semplicemente come un partito politico, come un fenomeno contingente, come un fatto transitorio: Anche questo è negato dagli odierni dominatori, che pretendono di avere, insieme, il dominio temporale dei corpi e quello spirituale delle anime; che affermano di avere instaurata, niente di meno, una nuova civiltà, e secondo cui la data fatidica dell'Ottobre 1922 dovrebbe significare la catarsi tragica del vecchio mondo in putrefazione e l'inizio rivoluzionario della nuova palingenesi.

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    Ma dove è stata, in verità, questa rivoluzione fascista? Oggi si vuole affermare che vi è stata la sostanza della rivoluzione senza il contenuto cruento, ed è questo, si dice, il merito del fascismo. Ma noi diciamo, proprio il contrario, che vi è stata, senza dubbio, la forma tipica della rivoluzione, il moto sedizioso, la sollevazione armata contro lo Stato, ma è mancata la sostanza.

    Né poteva essere altrimenti: La rivoluzione è una ideologia che si organizza; l'evento rivoluzionario che affiora alla superficie visibile della Storia é sempre poca cosa di fronte alla insondabile profondità delle correnti spirituali che lo hanno maturato. La rivoluzione è il colpo di forcipe che lacera il pregnante alvo del passato per farne sortire il germe già fecondato del futuro; ma questo germe è necessario che ci sia, e che sia fecondo e vitale; se esso manca, il fatto cruento della rivoluzione lacera i tessuti della Storia, ma non produce nulla di nuovo; non si ha il parto cesareo di una civiltà più alta e più umana e l'inizio di un nuovo secolo, ma proprio, invece, un aborto e una involuzione morbida delle forme sociali e politiche.





    Quale ideologia il fascismo aveva ed ha dietro di sé? Nessuna, o meglio, tutte, che vale quanto dire proprio nessuna. Fenomeno caratteristico del dopoguerra, come, appunto, il bolscevismo, esso trova in questo fatto, che basta a classificarlo, la sua condanna, dal punto di vista spirituale. La nostra serena equanimità di storici, però, sarebbe qui offesa, se noi negassimo al fascismo, a quello, almeno, della sua fase originaria, un carattere ed un merito indiscutibili. Il fascismo fu, sopratutto, in principio, una affermazione di volontà; in un momento storico in cui parve mancare a tutti, sovversivi e conservatori, qualsiasi capacità volitiva, esso ebbe il merito di affermare ed imporre una sua volontà combattiva ed intransigente. Volontà negativa, priva di un contenuto suo proprio, ma fu questa, appunto, la forza del fascismo in quel periodo di universale accomodantismo; e fu proprio questa mancanza di un contenuto deciso che rese possibile la formazione di un mito fascista, - i miti, già si sa, tanto più hanno forza quanto più sorti indeterminati, - e che favorì la rapida diffusione del fascismo in Italia.

    Ma questi elementi di forza diventavano, invece, elementi di debolezza a mano a mano che il fascismo da movimento di idee si tramutava sempre più in partito politico, e da partito politico diventava, colla marcia su Roma, partito, e partito esclusivo, di governo. La sua originaria volontà negativa è stata, infatti, quella che lo ha spinto, attraverso i successivi anelli della catena logica, al suo attuale, deciso conservatorismo reazionario, e il suo difetto di un contenuto spirituale proprio è, appunto, quello che ancora oggi costringe il partito, attraverso le sue contraddizioni interne, a barcamenarsi tra un anti-parlamentarismo verbale ed un politicantismo effettivo, tra la legalità e la violenza, fra la Confederazione dell'Industria e il Sindacato, e che orienta sempre più il fascismo verso il mussolinismo ed il mussolinismo, alla sua volta, verso il trasformismo. E', insomma, questa mancanza di un contenuto spirituale e di una volontà positiva, invano mascherata dalla retorica ricostruzionista e imperialista, che ha trasformato questa vantata rivoluzione in una avventura, e l'ha fatta sboccare in una colossale forma di arrembaggio allo Stato e nella creazione di una nuova consorteria e di nuove clientele.





    Ed è questo, sopratutto, che ci amareggia e ci disgusta: Perché noi sappiamo bene cosa abbia significato e significhi per la storia d'Italia la mancanza di una vera rivoluzione; noi sappiamo che il liberalismo e la democrazia sono sempre rimaste, in Italia, parole vuote, titulus sine re, appunto per la mancanza di una adeguata e personale esperienza storica del nostro popolo; noi ricordiamo con Alfredo Oriani, - è un nome, questo, caro all'on. Mussolini, che perfino il Risorgimento non è stato per l'Italia una conquista, ma, in parte, un colpo di fortuna ed, in parte, la necessaria, favorevole conseguenza dello svolgersi di avvenimenti estranei.

    Noi sappiamo tutto ciò, e sappiamo anche come veramente l'Italia avrebbe ancora bisogno di fare la sua rivoluzione, non coreografica, non, forse, cruenta, ma profonda, sostanziale, capace di dare davvero alla Nazione la coscienza di se stessa e della sua unità, quella coscienza che essa aveva cominciato ad acquistare attraverso la sanguinosa esperienza della guerra. E' evidente, quindi, senza bisogno di analizzare oltre i nostri sentimenti, come noi non possiamo guardare se non con tristezza a questo rinnovato spettacolo di corruttela per cui oggi il popolo d'Italia sembra risospinto al livello della plebe del Basso Impero, e con senso di amara ironia all'epilogo di questa nuovissima rivoluzione, i cui eroi sono tutti divenuti, oggi, per lo meno commendatori, quando non siano, addirittura, deputati, generali e ministri, o non si trovino, invece, putacaso, a Regina Coeli.

    Ma chi sono, in fondo, costoro?

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    Sono i nostri coetanei: Anno più, anno meno, appartengono alla nostra stessa generazione; sono anch'essi i quarantenni. Ma c'è, tra noi e loro, un abisso insormontabile. Se è vero che vi sono due modi di possedere il mondo, coll'azione e col pensiero, - ma è, poi, vero possesso l'azione? - è certo che essi hanno prescelto la prima maniera e noi la seconda.





    Così mentre nei studiavamo e analizzavamo Marx colla guida di Antonio Labriola, di Benedetto Croce e di Giorgio Sorel, essi empivano delle loro concioni le Camere del Lavoro, spuntando, nel seno stesso del partito socialista, il loro rivoluzionarismo verbale contro il dominante giolittismo dei riformisti; mentre noi ci nutrivamo della sostanza stessa del pensiero di Maurizio Barrès, il vero Barrès, il discepolo di Taine, l'analista e lo psicologo, essi, disillusi ben presto, come tutti gli intellettualmente deboli, del socialismo, si lasciavano attrarre dalla parte più caduca e contingente del pensiero di Barrès, e fornivano adepti al nascente nazionalismo d'importazione gallica; mentre noi, attraverso Renan, Blondel, Bergson, cercavamo di penetrare nella sostanza eterna e nel nucleo vitale del fenomeno religioso, accostandoci ad esso con un rispetto mistico che il nostro scetticismo faceva ancora più grande, essi si satollavano e si sentivano paghi del cibo positivista, attinto sui volumetti a tre soldi della casa Sonzogno, e davano scrittori all'Asino di Podrecca e militi a quell'anticlericalismo blasfematorio e pornografico che era di moda vent'anni addietro, così come oggi danno militi alle squadre che devastano le Logge massoniche.

    Insomma li abbiamo incontrati sempre questi nostri coetanei, al Liceo, all'Università, nelle piazze, nei caffè, nei partiti, nei circoli, nelle redazioni dei giornali, e li abbiamo sempre sentiti avversi, anche quando particolari contingenze potevano farci trovare provvisoriamente sulla stessa linea e sullo stesso cammino. Perché essi erano e sono veramente, per noi, usiamo pure qui, questa bella parola del nostro, del vero Barrès, i barbari. Essi peccavano, allora, contro lo Spirito, ed il loro peccato era, appunto, quello di aver mutilato lo Spirito subordinandolo e asservendolo ad una gretta concezione di parte. Il libro sacro dice che il peccato contro lo Spirito non sarà rimesso, e, certo, la via della redenzione è irrimediabilmente chiusa per costoro, che hanno peccato due volte, e ci appaiono, oggi, in veste di recidivi. La loro eccessività passata li trascina, come un demone inesorabile e incontenibile, alla eccessività odierna; rivoluzionari e giacobini dieci anni addietro, reazionari e liberticidi oggi, sono sempre in eccesso. Prima e dopo, sono andati, sempre, al di là della linea che segna l'equilibrio spirituale.





    Immutabili nelle nostre posioni, a cui siamo pervenuti attraverso un troppo duro travaglio di spirito perché possa avvenirci di doverle mutare facilmente; per luce di improvvise conversioni, immuni dell'antico e del nuovo eccesso, noi possiamo ben giudicare costoro, e ne abbiamo pienamente il diritto.

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    Li giudichiamo dalle parole e dai fatti, più, forse, dalle parole che dai fatti. Perché, in verità, - e qui è una delle differenze fondamentali tra noi e gli avversari esclusivamente politici del fascismo - questi novissimi satrapi fascisti ci urtano, forse, più per quello che dicono che per quello che fanno.

    Ai fatti noi sappiamo dare un'importanza relativa, e la nostra spregiudicata conoscenza della Storia, vicina e lontana, ci impedisce di dare eccessivo peso alle malefatte di costoro. Dietro le violenze dei ras noi vediamo la miseria intellettuale degli uomini e la bassezza della loro statura morale, che si riflette nella meschinità, in fondo, dei loro atti; noi non ci possiamo nemmeno scandalizzare troppo della manomissione delle libertà più elementari. Sappiamo, infatti, che chi è nato coll'anima dimezzata del servo sarà sempre schiavo, anche in tempi di maggiore e più conclamata libertà; e sappiamo, d'altro canto, che la vera libertà è nello Spirito, e che non c'è barba di tiranno, anche serio e non semplicemente da operetta, che sia capace di opprimere veramente la libertà di un uomo che vuole essere e vuole restare davvero libero.

    Non siamo capaci di versare fiumi di lagrime sulla costituzione manomessa, sul Parlamento asservito e sulle elezioni fatte col listone e col manganello, e non possiamo esimerci dal ricordare che anche Giolitti, ai suoi tempi, in tema di elezioni, ha fatto qualche cosa di simile, se pure con maggiore prudenza e riservatezza. E nemmeno non ci possiamo dolere troppo della manomissione della libertà di stampa; siamo troppo scaltriti per non sapere che anche in regime di censura si può dire, in fondo, tutto quello che si vuole. Basta saperlo dire, e adattare lo strumento al tempo: se non si può scrivere un articolo di giornale, è sempre possibile scrivere una tragedia o un saggio storico. Anzi, noi ci auguriamo da questo regime di censura un elevamento di stile ed un maggiore sforzo di intelligenza, di cultura e di ironia nella nostra letteratura politica.





    E, infine, nemmeno noi sappiamo scandalizzarci troppo della questione morale e del delitto politico, ormai accertato in tutti i suoi precisi elementi giuridici costitutivi a carico del regime. La questione morale non impedì a Francesco Crispi di essere veramente un uomo di Stato, e l'indiscussa onestà di Luigi Facta non è, certo, valsa a compensare la sua assoluta inettitudine come capo di Governo.

    L'uccisione del Duca d'Enghien non riesce ad abbassare troppo, per noi, malgrado la feroce requisitoria di Chateaubriand, la statura del primo Napoleone.

    Ma il fatto è che bisogna avere uno stile, una linea, anche nelle violenze, anche nella tirannia, ed, è questo che manca, oggi, al fascismo ed ai suoi supremi gerarchi. E' la loro volgare platitude di pensiero e d'espressione, il loro inguaribile cafonismo di parvenus dell'intellettualità, il vuoto pneumatico del loro pensiero, non a sufficienza riempito dal mare di parole in cui naufragano i rottami d'una culturaccia d'occasione, quello che specialmente ci urta in questi dominatori dell'ora, e ce li rende ostili, più ancora che gli eccessi, le esorbitanze e le improvvise fortune del loro potere politico.

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    Il nostro scaltrito gusto letterario ed il nostro senso estetico, che ha l'istinto della misura, ma, più ancora, il nostro senso della concretezza, che fa sì che noi abbiamo sempre più idee che parole atte e sufficienti ad esprimerle, ci rendono diffidenti di fronte a tanta inutile verbosità che trabocca ed imperversa in modo così opprimente ed incomposto. Noi possiamo ben sorridere del novissimo stile di costoro, che, inebbriatisi nel baccano del superlativo, ardono incensi alla Decima Musa, la retorica, purtroppo, immortale, e si nutrono con compiacimento e colla stessa indifferenza tanto dei rifiuti del gergo di caserma quanto degli ultimi avanzi caduti dalle tavole ormai sparecchiate del grande banchetto dannunziano. E se non è senza significato che l'anti-grammatico di Cremona Nuova sia, oggi, esaltato al rango di vice-Duce, maggiore significato ancora ha forse, il fatto che tra i corifei ed i zelatori del regime siansi reclutati i giornalisti più vacui e più affetti dalla lue parolaia, principe tra essi quel Rastignac, che al regime deve, appunto, il seggio senatoriale, e che può considerarsi l'esemplare più alto e più espressivo dello scrittore di politica a tipo retorico e pseudo-letterario. Tipo quanto mai distante dei vecchi e realistici scrittori italiani di politica, e quanto mai insufficente per quelli che sono, oggi, gli elementi costitutivi della politica, non è qui necessario dimostrare. E nemmeno è privo di significato il fatto che il fu generalissimo Balbo avesse tanta cura e tanto amore per la sua prosa da richiedere, nella stessa lettera con cui ordinava la bastonatura degli avversari, l'esattissima punteggiatura e virgolazione nella stampa di un suo articolo di fondo per un giornale di provincia.





    Questa gente ha finito, infatti, per credere che le sue parole abbiano la stessa virtù creatrice del verbo divino, ed usa continuamente uno stile tra biblico e pedagogico, che vorrebbe riscoprire le verità più banali ed elementari, e che pretende costringerci ed umiliarci nuovamente sulle panche degli scolari. Che cosa è l'Italia? Che cosa è la Patria? Che cosa è la Nazione? Che cosa è il Popolo? Ed ecco la sua brava definizione, trinciata in forma di oracolo, che segue automaticamente alla domanda, e che svela alle folle ignare ed attonite le grandi Verità riscoperte dal nuovo regime.

    Se io avessi tempo e voglia di farlo vorrei scrivere un trattato Del perfetto tiranno, ed in esso, come in tutti i trattati che si rispettano, comincerei naturalmente, con una classificazione dei varii tipi di tiranni. Non ho ancora ben chiaro in mente come sarebbe questa classificazione, ma quello che so con certezza è che metterei, senz'altro, l'on. Mussolini fra i tiranni a tipo pedagogico. Il peggior tipo di tutti, senza dubbio, e quello che ha minori probabilità di durare a lungo, perché un popolo, e specialmente un popolo come l'italiano può rispettare un tiranno serio e severo, può temere un tiranno feroce e sanguinario, può amare, anche, un tiranno artista ed esteta, ma finisce per essere terribilmente scocciato da un tiranno predicatore.

    Dati di psicologia individuale e collettiva, questi, che potrebbero anche servire, sia detto di passaggio, allo storico futuro per spiegare, assieme con altri elementi, il rapido declino tra le folle di un prestigio personale senza dubbio ancora grandissimo non molti mesi addietro.

    L'esempio del duce, naturalmente, ha fatto scuola tra i luogotenenti ed i gerarchi minori, e lo stile pedagogico può dirsi, oggi, di moda tra tutti questi nuovissimi filosofi e politici che pretendono non solo di dominare quaranta milioni di italiani, ma di rifarne addirittura, ex-novo ed a modo loro la mentalità; che vogliono riformare, nonché lo Statuto e la costituzione, il mondo intero, e che sarebbero capaci d'impartire lezioni perfino al padreterno.

    Ma noi, che sappiamo ammirare su ogni cosa la divina virtù del silenzio operante, siamo stanchi, oramai, del continuo flusso di parole che sgorga da queste fonti oratorie sempre aperte, che ripetono continuamente sullo stesso tono, come quelle scatole musicali di cui ci dilettavamo nella nostra puerizia, gli stessi motivi, le stesse frasi e gli stessi luoghi comuni, a cui nessuno, oramai, mostra più di credere.





    Il popolo italiano non ha bisogno di demagoghi che lo concionino per le piazze, tramutate, oggi, in arenghi, né ha bisogno di sagre che solletichino le sue purtroppo non sopite velleità coreografiche e festaiole. A noi che conosciamo, insieme colle molte virtù anche i difetti di nostra gente, urta una politica che tende ad eccitare ciò che di peggio vi è in questi difetti, coltivando, quasi, gli istinti più bassi del popolo nostro.

    Ci urta questo sbandieramento di vecchi nomi sacri alle nostre più care memorie, di cui il nuovo regime si impadronisce come di res nullius, questa contaminazione di teorie mal digerite, questo vuoto spirituale che si maschera come eccletismo filosofico, questo empirismo banale, insomma, e questo strainfischiarsene delle norme della più elementare serietà politica che ci si vogliono offrire, oggi, come la quintessenza del machiavellismo. Ci urta questo continuo richiamo ai sommi principii, questa contraffazione di Hegel offertaci attraverso una più discutibile ancora contraffazione di D'Annunzio, ci urta e ci umilia, insieme, il tono di questa ormai troppo lunga polemica, in cui non si possono dire più quattro parole in fila senza mischiarvi ad ogni momento le parole auguste di Patria, di Nazione, di Verità e di Libertà. Parole che, a forza di essere ripetute, si sono ormai consunte come vecchi abiti logori, e son divenute, quasi, incomprensibili e prive di significato.

    Ci urta che nel campo della politica pratica e quotidiana, che è per definizione il campo del contingente e del relativo, costoro vogliano farci sentire continuamente il peso di un loro preteso Assoluto, che opprime ed umilia il nostro carattere di individui in quello che abbiamo di più nostro e di più personale, e che vorrebbe invadere e sforzare il sacrario stesso della nostra spiritualità.

    Ma la nostra aspirazione intima e profonda verso il vero Assoluto; verso qualche cosa che trascenda effettivamente le contingenze del momento, verso il Dio Ignoto, insomma, che noi sentiamo ed adoriamo pure attraverso il nostro apparente scetticismo, questo nostro atteggiamento spirituale ci permette di guardare con disprezzo, insieme, e pietà, questi nuovissimi politici e filosofi, che pretendono di tenere chiuso nel proprio pugno adusato al manganello il fragile corpo della dea Verità, e che scambiano il metodo correzionale della ferula colla faticosa disciplina interiore dello Spirito.

SALVATORE VITALE.
Il pensiero di S. Vitale, anche se non completamente il nostro,, ci sembra assai profondo e degno di meditazione.