RADETZKY

    Il maresciallo Giuseppe Venceslao Radetzky, conte di Radetz, comandante supremo dell'imperiale e regio esercito d'Italia, e più tardi governatore civile e militare del regno Lombardo-Veneto, fisicamente parlando non era - e non doveva essere stato, mai, neppure da giovane un Adone. Bassotto di statura e mingherlino, la testa fatta a palla, gli occhi scerpellati, il naso camuso, due baffetti microscopici, bianchi come la neve, che campeggiavano sulla tinta piuttosto accesa del viso; tale era l'uomo quando l'ho conosciuto io, o, per dir meglio, quando l'ho veduto la prima volta.

    Nel complesso, e a prima vista, aveva la fisionomia di un bull-dog, ma di un bull-dog di buona indole; il suo sguardo era dolce e le sue labbra sorridevano facilmente.

    Egli constituiva, insomma, una vera eccezione fra i suoi compatriotti - i Boemi - che passavano meritamente per una delle più belle razze dell'impero.

    Quando non vestiva l'uniforme - e prima del quarantotto la vestiva assai raramente - a vederlo, pareva più un vecchio impiegato d'ordine che un soldato; nulla nel suo portamento, nel suo gesto, nel tono della sua voce che indicasse un seguace di Marte.

    Viveva ritiratissimo: lavorava molto nella cancelleria dal suo stato maggiore e la sera riceveva volentieri i pezzi grossi del presidio.

    Abitava in via Brisa, ma la cancelleria l'avea nel palazzo Cagnola in via Cusani, deve si recava tutte le mattine ad ora fissa con esattezza cronometrica militare, e ad ora fissa usciva dall'ufficio.

    Quando il tempo non era cattivo, faceva il suo tragitto - del resto non lungo - a piedi. E allora prima di uscire di casa si metteva nel taschino del panciotto una buona quantità di quartini, e, strada facendo, li distribuiva ai suoi poveri che lo stavano aspettando scaglionati lungo il tratto di piazza Castello che egli doveva attraversare.





    Il quartino era una moneta d'argento di lega equivoca, ma che al corso legale valeva venticinque centesimi di svanzica pari a venti dei nostri o giù di lì.

    Per quei tempi un quartino era una bella elemosina; e siccome i poveri del maresciallo erano parecchi, così si può calcolare che la sua gita pedestre veniva a costargli un giorno sull'altro un buon tallero.

    Si diceva allora che oltre a questi atti di carità alla buona, egli ne facesse altri di molto maggiore importanza a favore di famiglie rispettabili e bisognose, soccorrendole clandestinamente.

    Il fatto è che fino al 1848 il suo nome fu molto popolare nelle classi inferiori della popolazione milanese.

    Ad aumentare la sua popolarità contribuiva non poco anche il rigore con cui egli puniva quei suoi subordinati che si fossero permessi soprusi a danno di cittadini.

    Tali casi erano rarissimi, per verità, ma quando si verificavano, il castigo seguiva pronto ed esemplare, chiunque fosse il colpevole - semplice soldato od ufficiale.

    Citerò, a questo proposito, un fatto, di cui tutta Milano ebbe ad occuparsi per parecchi giorni.

    Il maresciallo aveva due figli nell'esercito; uno, ufficiale superiore in un reggimento di confinarii, non ha mai fatto parlare di sè - che io sappia - né in bene, né in male; l'altro, il minore di età, tenente in un reggimento di usseri, era un vero demonio, spavaldo, prepotente che credeva tutto lecito per sé, perché era figlio di suo padre. Ma suo padre l'intendeva diversamente, a non gliene lasciava passare una impunita.

    Un giorno il nostro tenentino - bel giovane, del resto - entra in quel caffè che allora esisteva ancora, dirimpetto al palazzo Litta, dove convenivano abitualmente moltissimi ufficiali dei reggimenti acquartierati nelle vicinanze.

    Si trovava in quel momento nel caffè l'abate Gianni che, seduto ad un tavolino, leggeva tranquillamente la Gazzetta d'Austria, centellando il suo caffè.





    L'abate Gianni - fra parentesi - era un gigante; un gigante in tutto il valore della parola, a confronto del quale l'onorevole Pierantoni avrebbe fatto la figura di un rachitico adolescente.

    Il giovane Radetzky squadra il prete da capo a piedi, quasi meravigliato di trovarlo in quel luogo, poi gli si avvicina chiedendogli il giornale in tono imperativo.

     - Ora lo leggo io - gli risponde con la massima calma il Gianni.

     - Non è lettura per lei! Legga il breviario e farà meglio - replica il tenente facendo atto di levargli il foglio di mano per forza.

     - Lei è un insolente!

     - Bada a ciò che dici, pretaccio malcreato!

     - Lei è un mascalzone!

     - Non sai con chi parli? Io sono il figlio del maresciallo Radetzky!

     - Non posso crederlo.

     - O ritiri le tue parole, o mi darai soddisfazione sul terreno... Scegli il luogo, l'ora e le armi.

    A così stupida disfida, il molto reverendo si alza lentamente in piedi, e avvicinandosi al provocatore, guardandolo fiso negli occhi gli dice:

     - Sta bene! Nessun luogo più adatto di questo, nessuna ora più opportuna di questa, nessun'arma migliore di questa...

    E così dicendo, lascia cadere sulla guancia del tenente un potentissimo manrovescio che lo manda barcollante a quattro o cinque passi di distanza.

    Quindi esce maestosamente tranquillo, come se nulla fosse, e se ne va per i fatti suoi senza voltarsi indietro.

    Fu ventura che in quel momento nessun altro ufficiale si trovasse presente, e che il Radetzky fosse - come ordinariamente - in costume borghese perché fino al 1848 gli ufficiali non vestivano l'uniforme che in servizio. Altrimenti sarebbe avvenuta una tragedia.

    La notizia del fatto si divulgò per la città in un lampo. L' I. R. polizia, ne fu allarmatissima, e nello stesso tempo imbarazzatissima, non sapendo che pesci pigliarsi. Infatti, da una parte nientemeno che il figlio del maresciallo, dall'altra un prete rispettabile, funzionario pubblico perché professore nell'I. R. ginnasio di Sant'Alessandro e per di più provocato in modo veramente colpevole.





    Ma a sciogliere l'intricata questione intervenne il maresciallo in persona che, informato della cosa, chiamò a sé il figlio, gli diede una solenne lavata di capo, gli intimò gli arresti di rigore per non so quanto tempo, e poi lo congedò con una terribile pedata in quella "parte ove non è che luca".

    E così col ceffone ecclesiastico dell'abate Gianni ricevuto all'oriente, e colla pedata del babbo, ricevuta all'occaso, quel discolo ebbe il saldo del suo conto. Ma per quanto quella pedata fosse caduta in luogo eminentemente privato, nella stessa giornata e in men che non si dica diventò di dominio pubblico; e tutti in Milano lodarono il vecchio maresciallo e la sua giustizia sommaria che in realtà gli faceva grande onore non solo nella qualità di padre, ma anche in quella di capo dell'esercito.

    Da quel giorno, e per parecchio tempo, i milanesi - specie i popolani - alle pedate diedero il nome di radeschi.

    Ti darò un radeschi... Lo cacciò via a furia di radeschi... Quel monello bisogna trattarlo a radeschi..... ed altre locuzioni consimili ebbero in breve corso legale, se non forzoso.

    Ma coi primi albori della rivoluzione la popolarità del maresciallo incominciò a declinare e finì per subire il tracollo finale colle sciabolate distribuite ad una popolazione inerme da una soldatesca briaca e provocatrice, la sera del 3 gennaio 1848.

    Da quel giorno il suo nome diventò odioso, aborrito.

    Ma non mancò chi asserì allora ch'egli fosse stato estraneo a quelle scene di sangue preparate a sua insaputa e da lui altamente biasimate l'indomani.

    E io non sono lontano dal crederlo, tanto più che mi ritornano oggi pienamente alla memoria le confidenze fattemi in quei brutti giorni dal sor Giovannino.

    Il sor Giovannino era un brav'uomo che cumulava i due uffici di mio tabaccaio ordinario e di maestro di casa del generale Walmoden, comandante del 1° corpo d'esercito e governatore militare di Milano.





    Il sor Giovannino mi assicurava, dunque, che il generale, suo padrone, appena avuta notizia delle sciabolate era salito su tutte le furie trattando i soldati di sgherri, di vigliacchi e peggio, e accusando il colonnello Wratislaw di avere montata la macchina. Il colonnello Wratislaw era allora capo di Stato Maggiore dell'esercito d'Italia e in moltissimi casi agiva indipendentemente dal maresciallo, mantenendosi in corrispondenza diretta e segreta col generale Hess, comandante lo stato maggiore generale dell'impero, residente a Vienna.

    Il sor Giovannino si vantava di avere orecchio acuto e però doveva sapere di molte cose. Le sue rivelazioni erano quindi attendibilissime, allora per me; più tardi, poi, vennero confermate anche da pubblicazioni quasi ufficiali.

    Ora, se gli eccidii dal 3 gennaio vennero preparati ad insaputa dello stesso governatore militare della città, si può ammettere con maggiore ragione che fossero stati preparati anche ad insaputa di Radetzky.

    Che questi poi non fosse d'indole crudele, egli lo ha provato dopo la campagna di Lombardia. Oltraggiato, schernito, insultato atrocemente ed in tutti i modi possibili dai milanesi di ogni classe sociale, durante il governo provvisorio, ritornato vincitore, non prese vendetta personale di sorta.

    Allorché rientrò in Milano, dopo l'armistizio di Salasco, una frotta di barabba trottando ai lati del suo cavallo, gli andava gridando:

     - Sur Radetzky... sur Radetzky, sem minga staa nun, vedel, a casciall via! Hin staa i sciouri! (Signor Radetzky, non siamo stati noi, sa? a cacciarlo via; sono stati i signori).

    Assicurazione vigliacca e stomachevole per se stessa, ma che conteneva un gran fondo di verità.

    E il maresciallo rispondeva sorridendo:

     - Lo so!... lo so, figliuoli mieí!

GIUSEPPE AUGUSTO CESANA
Questa riabilitazione di R., oltre a darci un esempio di prosa dal Cesana, ci sembra che non manchi di interesse.