LO SPIRITO PIEMONTESE

    Carlo Felice fu l'ultimo re piemontese. L'audacia battagliera e l'astuzia invincibile dei re del Settecento s'attenua in lui per il ricordo dell'onta subìta durante il periodo napoleonico. Nell'amletismo di Carlo Alberto c'è già tutto il disorientamento della provincia di fronte al soffio incompreso della moderna vita europea.

    Dal '49 al '65 il Piemonte si sacrificò all'Italia per conquistarla. Antepose i De Sanctis, gli Spaventa, i Mancini, i Ferrara ai suoi Boncompagni, Bertini, Balbo, Berti. Cavour conquistò l'Italia, ma gli italiani dal '48 al '59 avevano conquistato e distrutto il Piemonte. Ad unità compiuta il Piemonte si trova privo delle sue caratteristiche, proprio mentre le altre regioni le hanno accentuate. Dopo il Risorgimento infatti si assistette a una serie di reazioni locali, dal brigantaggio al sovversivismo ultrafederalista che cercarono e sfruttarono tutte le tradizioni antiunitarie delle città e delle provincie. Torino invece si dovette proporre il compito nuovo, che Milano aveva già imparato sotto l'Austria, di tenere il collegamento tra gli istinti africani della penisola e la civiltà europea.





    Se non si tiene conto di questa crisi non ci si spiega lo spirito piemontese degli ultimi cinquant'anni. La sostanza dell'enigma è questo: sussiste un'eredità storica di sentimenti e di istinti non raccolta, disprezzata, che pur continua a pesare sul presente. I valori del Piemonte di Carlo Felice erano la burocrazia e la diplomazia; gli ideali la vita aulica e cavalleresca. La monarchia piemontese era stata insieme audace e avara, gretta e avventurosa. Tuttavia nel vecchio regime il culto delle virtù s'era conservato ostinatamente. E' innegabile che questi motivi serbino un fascino sugli animi dei piemontesi contemporanei, anche se essi non rileggono più i romanzi di Calandra che ne sono nostalgicamente pervasi. Del resto Settecento e vecchio regime rammentano caratteri della terra ancora attuali: il culto della pratica e il disdegno per le complicazioni psicologiche e romantiche. Il Piemonte ha sempre risolto i suoi problemi spirituali con una formula rigorosa: confinare le eresie all'estero (Radicati, Baretti, Alfieri) e accettare le forme religiose più facili e pratiche: il cattolicismo ridotto a significare ossequio all'autorità. I tentativi romantici svegliatisi al principio del secolo scorso passarono senza consensi tra le masse e tra le stesse classi dirigenti. L'esperimento più interessante in materia religiosa si ha da un punto di vista strettamente politico: ed è la pratica della tolleranza di fronte a tutte le fedi cui i Principi di Savoia si mantennero fedeli sin dal Seicento e che sboccò nella grandiosa politica cavouriana. Ma contro chi volesse affacciare di questo fatto un'interpretazione protestante - che a primo aspetto sembra seducente - basterebbe obbiettare il carattere rigidamente formalistico dell'esperimento: i Valdesi furono tollerati sì, ma confinati nelle valli più solitarie! E la legislazione sabauda li proteggeva e li garantiva, purchè non scendessero al piano.





    Questo è lo spirito del vecchio Piemonte, scontroso e aspro come le sue montagne, diffidente e inaccessibile, ma in fondo conciliante e tenero verso le questioni di buon senso. Non era terreno da Riforma o da ardore religioso e infatti Gioberti non vi ebbe mai - se non in qualche allucinazione popolare, durata brevi ore - la popolarità che accendeva nel Mezzogiorno. Forse i piemontesi neppure avrebbero capito le sue formule, se Balbo non si fosse offerto come buon interprete. In realtà lo spirito rappresentativo dei tempi e dei costumi era per molti aspetti Solaro della Margherita. La filosofia importata da Rosmini non trovava cultori degni di partecipare alla storia europea; la letteratura, memore di Alfieri soltanto per un residuo di aspirazioni ribelli, si diffondeva in forme di divulgazione, con tutto lo stento e il pedagogismo impoetico che si sente nell'opera di Bersezio e nello stesso d'Azeglio.

    Questi esempi di fallimento bastarono per distogliere i piemontesi intelligenti dalla letteratura. La scapigliatura milanese vi trovò seguaci di gusto come il Cagna, vivente, e dimenticato, il periodo di fiorimento della letteratura a sfondo locale diede un buon frutto in Novelle e Paesi Valdostani del Giacosa; ma in sostanza tutte le manifestazioni finivano per dipendere dal verismo che Milano diffondeva corrompendolo con le mediocri aspirazioni romantiche di un mondo piccolo-borghese. Il Piemonte era stanco di questa letteratura e di questa morale e riuscì a ironizzarle con stanchezza decadente nell'opera di Gozzano. Il fallimento dell'eredità alfieriana non poteva essere più sconsolante e aveva tutto il sapore di una disfatta fisiologica come se in sede di cultura dovesse essere ormai proprio la razza a difendersi della tisi. Non c'era posto per innovatori. Anche Cena deve portare lontano il suo idealismo umanitario, inquieto e quasi lasciare il posto al moralismo più accomodante di De Amicis. Per sapere che spiriti come Jahier, Casorati, Thovez, Sibilla Aleramo sono piemontesi bisogna consultarne le biografie: sulla vita locale non hanno lasciato traccia, così come non ebbe efficacia se non su pochissimi l'operosità instancabile di Graf e di Farinelli, piemontesi d'adozione.





    Perciò, per un fenomeno naturale si è lasciata la letteratura alle signore come a quelle che potevano essere più adatte a parlare un linguaggio quasi da disoccupati, con risonanze e imitazioni colte da tutte le parti in un momento storico di decadenza.

    Per rinascere il Piemonte cerca altre vie. Dedica il fervore religioso di cui si era dimenticato dopo le guerre feroci dell'alto Medio Evo a costruirsi un'economia e una vita sociale autonoma. L'eredità del liberalismo cavouriano è stata per cinquant'anni abilità amministrativa, spirito di trasformismo, giolittismo. Senza dubbio nella figura di Giolitti i piemontesi si erano abituati a sentire l'istinto della razza fatto di forza morale e di superiorità sulle circostanze.

    Ma l'avvenire politico della regione pur non rinnegando queste qualità diplomatiche è altrove. In pochi decenni di lavoro, Torino si è trasformata, in un centro di grande iniziativa industriale. Trent'anni fa era ancoro il paese delle piccole e media imprese, di una scarna e debole media borghesia. Oggi ha creato la Fiat, un'azienda internazionale che è stata capace di reggere alla crisi travolgente del dopoguerra. E' da questi fenomeni che nascerà la rivoluzione spirituale di questo popolo vissuto di rassegnazione e di mediocrità. Nel secolo scorso non bastò la culture a svegliarlo. E invece sarà la grande affermazione di un proletariato umile e trascurato, che vuol diventare democrazia moderna, l'origine di una vera cultura e di un vero risveglio religioso. E' tutto il Piemonte che oggi lavora per questa rivoluzione unitaria, per questo Risorgimento

p. g.