I PROBLEMI DEL SIONISMOSecondo una recentissima statistica del demografo berlinese Lecinski la popolazione ebraica sparsa nel mondo raggiungerebbe la cifra di 14.830.832 individui, di cui 9.232.576 nella sola Europa. Di questi, relativamente pochi sono quelli che abitano l'Europa occidentale: 286.000 in Gran Bretagna, 150.000 in Francia, 56.000 in Italia, e via dicendo. La popolazione diventa più fitta man mano che si procede verso Est: ve ne sono 575.000 in Germania, 300.000 nella piccola Austria, 354.432 in Czecoslovacchia, 473.310 in Ungheria. L'Europa Orientale infine è quella che presenta le colonie ebraiche più numerose: romena con 834.344 individui, polacca con 2.829.456, ucraina con 1.772.479, russa con 2.626.667. È da queste colonie che si sono staccati, per la maggior parte, i 3.600.000 israeliti che popolano gli Stati Uniti d'America, e sono queste stesse colonie che danno oggi il maggior contingente all'immigrazione in Palestina. Teodoro Herzl, autore del libro Lo Stato Giudaico (1896), che primo iniziò il movimento, e il Congresso di Basilea che ne votò il programma (1897) tratta l'ispirazione e la forza precisamente dall'ondata di antisemitismo scatenatasi in Francia sul finire del secolo scorso in occasione dell'"affaire Dreyfus". Ma se in Francia l'antisemitismo fu l'esplosione di un momento, nell'oriente d'Europa i pogrom furono una crudele realtà fino a questi ultimi anni, e se ora le persecuzioni fisiche come sistema sono cessate anche laggiù, agli Ebrei è fatta tuttavia una intollerabile condizione di inferiorità. In Romania essi non sono ancor oggi considerati cittadini, in Ungheria e Polonia sono esclusi dalle cariche statali e vige la norma del "numerus clausus", per l'accesso degli iscritti all'Università: nella Macedonia greca con l'affluire dei profughi d'Asia Minore è sorto l'antisemitismo, che ha di mira sopratutto la fiorente colonica ebraica di Salonicco. Taccio i singoli mostruosi episodii, anche recentissimi, che si potrebbero citare a riprova del trattamento fatto agli Ebrei in alcuni Stati dell'Europa Centrale e Orientale. Sicché, mentre nell'Occidente gli Ebrei si sono in gran parte assimilati con i popoli in mezzo ai quali convivono, e molti di essi hanno non solo abbandonata la religione, ma perduta pure la coscienza di nazionalità ed anche di razza, gli Ebrei orientali si sono continuati a considerare minoranze nazionali alla stregua delle altre minoranze numerose in quelle regioni, ed hanno conservata una lingua loro propria, il gidish, in cui predominano gli elementi tedeschi. La realizzazione sionista è dunque anzitutto un trionfo del principio di nazionalità, una riaffermazione solenne di questo principio, per cui ogni nazione ha diritto ad avere un suo focolare. Il capo di questo movimento, l'"Organizzazione Sionista Mondiale", è dal 1917 il dott. Chaim Weizmann, già professore di chimica all'Università di Manchester, nativo della Polonia ma da tempo naturalizzato cittadino britannico. Quest'anno è venuto per breve tempo a Bellagio, a riposarsi delle fatiche della testé chiusasi annata 5685 del Calendario Ebraico, ed ha voluto passare tre giorni anche a Milano, nella ricorrenza del Kipur, la grande festa israelita del Perdono. In tale occasione ha tenuto pure una conferenza ai Sionisti milanesi ed ha dato, il giorno appresso, un ricevimento ai giornalisti. Chi lo ha sentito non può non averne ricevuto l'impressione di trovarsi veramente davanti ad una persona di levatura singolare. Egli imposta con precisione e chiarezza i grandi problemi del suo poliedrico movimento, che mostra possedere a fondo, e ne parla freddamente, in una forma pacata e in uno stile piano, senz'ombra di verbosità. Ogni tanto ha degli spunti felici, un'ironia fine e signorile che conquista. Di carattere autoritario, mal sopportò il fuoco di fila di critiche di cui fu fatto segno al recente Congresso di Vienna dell'Organizzazione, talché si dimise e fu poi rieletto; e dalle sue parole ancora adesso traspare il dispetto per i conti che gli furon fatti rendere. Io ho avuto la fortuna, in questa sua terza venuta in Italia, di potermi intrattenere con lui. Weizmann, che conosce sette lingue; inglese, francese, tedesco, russo, polacco, ebraico e giddish, mi parla in francese, lentamente. È un uomo di pochissime parole, pregio tanto più notevole ai nostri giorni, in cui imperano la logorrea e il demagogismo. Era con lui il Consigliere Delegato della Federazione Sionistica Italiana, avv. Giuseppe Ottolenghi, il quale mi è stato largo di informazioni. Che cosa sia l'Organizzazione lo aveva detto alla conferenza. "Noi non siamo ancora uno Stato, ma abbiamo tutti i guai di uno Stato. Abbiamo le classi e la lotta di classe, abbiamo il budget... o meglio, non lo abbiamo. Siamo uno Stato ambulante". Poiché l'accenno alla lotta di classe mi ha interessato, gli chiedo anzitutto notizie in argomento. Sissignore, v'è anche la lotta di classe. Poiché vi sono ben quattro partiti socialisti e socialisteggianti nell'Organizzazione: il Poalé Zion e lo Zeiré Zion, i cui iscritti aderiscono parte alla II e parte alla III Internazionale, e due più moderati, l'Hupoel Hazair e l' Hitachudt. Ma il partito più forte è quello dei Sionisti generali (Allgemeine Zionisten), che conta circa la metà degli organizzati e si mantiene fedele al programma di Basilea, rifiutandosi di prender etichette speciali. È il partito medio. Con esso quasi si confondono i Vecchi Sionisti politici, che si ispirano direttamente allo Herzl. All'estrema destra stanno i revisionisti, pochissimi ma compatti e decisi, giovani per lo più con alla testa Jabotinski, considerato l'eroe nazionale, che comandò le Legioni Giudaiche in Palestina durante la guerra. Essi proclamano la necessità della politica forte contro gli Arabi e si mostrano alquanto ostili anche all'Inghilterra: sono insomma degli accesi nazionalisti. Finalmente il Mizrachi che raggruppa circa un quarto delle forze sioniste, costituisce l'elemento religioso militante. Aggiungo che il l° giugno ha iniziato le pubblicazioni a Tel Aviv, la caratteristica città ebraica fondata nel 1908, un quotidiano operaio in lingua ebraica, il Dauar, che si interessa essenzialmente al movimento operaio e professionale, oltre che a quello politico, di Palestina, Siria, Egitto, Arabia e paesi limitrofi. In fondo, mi spiega il mio interlocutore, quello che vige nella Palestina colonizzata dagli Ebrei è press'a poco un regime socialista. L'immigrante che giunge in Palestina non avrebbe certamente i mezzi per acquistare i terreni, bonificarli, dissodarli, provvederli degli strumenti necessari; a questo pensa l'Organizzazione Sionista. La terra però resta di proprietà dell'Organizzazione, se anche tutto il frutto ne va al coltivatore: questi vi ha una sorta di enfiteusi perpetua, che non può alienare, e che si trasmette al figlio o ad altro erede solo nel caso che questi la lavori. I coloni a loro volta si riuniscono poi in cooperative ed anche in vere e proprie comunità. Gli operai delle industrie sono per lo più organizzati in sindacati, ciò che è segno della loro maturità. Ma per la complessa attività che l'Organizzazione deve svolgere, occorrono somme immense. Essa spende un milione di sterline all'anno, ma neppur queste sono sufficienti. La terra, anche per l'abbandono in cui è stata lasciata durante secoli di dominazione turca, è poco fertile, e l'Organizzazione, dopo essersi accaparrata i terreni più fecondi, deve acquistare ora anche quelli peggiori. Ma ciò, espone Weizmann, dà luogo al sorgere della speculazione privata, che si è sviluppata con estrema rapidità, tanto che oggi gli acquisti fatti da privati a scopo speculativo sono circa il doppio di quelli fatti dall'Organizzazione; conseguentemente i prezzi hanno subito un rialzo enorme (il terreno costa ormai in Palestina quello che può costare a Milano o in altra grande città), altro serio ostacolo all'attività dell'Organizzazione. Alla mia richiesta se le colonie siano attive risponde in senso affermativo, contrariamente a quanto si dice da più parti. Le prime colonie, anteguerra, quelle dei Rothschild ad esempio, rispondevano a criterii soltanto filantropici: ma oggi esse sono state organizzate con criterii rigidamente industriali, e debbono rendere. Comunque i danari non saranno mai sufficienti per soddisfare quelli che dall'oriente europeo vogliono riversarsi in Palestina. Per ogni domanda che si accetta, ha detto Weizmann, se ne rifiutano venticinque, il che vuol dire che, se vi fosse la possibilità di installarli tutti, 75.000 immigranti invece di 3000 entrerebbero mensilmente in Palestina. E se 75.000 Ebrei chiedono ogni mese di recarsi nella loro nuova patria, quale miglior conferma della necessità del focolare ebraico, tanto più fino a quando i principii della collaborazione internazionale saranno così poco praticati, da permettersi ad una Nazione prospera e relativamente spopolata come l'America di chiudere la porta in faccia ad ogni immigrazione? Nell'immediato dopoguerra l'afflusso mensile in Palestina era di soli 400 individui. Oggi gli Ebrei maltrattati in Romania, gli Ebrei di Russia economicamente rovinati dalla Rivoluzione, quelli di Polonia, privati per effetto dei mutamenti politici sopravvenuti in quelle regioni, dei loro sbocchi orientali, fanno ressa dinanzi alla via di Palestina. Questo eccessivo intensificarsi dell'immigrazione ha aperto per il problema sionista una nuova fase; e i Sionisti (i tesserati del movimento sono circa un milione, al quale si aggiunge la forte corrente dei simpatizzanti), impotenti ad accollarsi essi soli un tale carico, hanno chiamato a sé tutto il popolo ebreo, che, in generale, ha risposto all'appello, conscio che ormai nel tentativo palestiniano è in giuoco l'amor proprio e l'avvenire non dei Sionisti soltanto, ma di Israele. In tali condizioni, il recente Congresso di Vienna ha deliberato, su proposta di Weizmann, che all'Organizzazione Sionistica, riconosciuta, a termini dello Statuto del Mandato, come Jewish Agency incaricata di tutelare gl'interessi ebraici nel National Home, fosse sostituito in tale funzione un Parlamentino misto di 75 Sionisti e 75 non Sionisti, con alla testa il Presidente dell'Organizzazione. I Sionisti resteranno tuttavia all'avanguardia; e ad essi spetterà pur sempre l'onere e l'onore maggiore dell'intrapresa. Anche l'evoluzione religiosa dell'Ebraismo presenta notevole interesse. L'israelita è generalmente religioso, e il Sionismo, movimento esclusivamente politico che considera gli Ebrei in quanto Nazione, professa la massima deferenza per questo sentimento. Nel suo seno i religiosi militanti si possono valutare, come abbiam detto, a circa un quarto; e fuori di esso pochi sono gli elementi strettamente ortodossi e rifuggenti dalla politica, che fanno capo alla Agudath Israel. Frattanto in Palestina si vanno facendo strada correnti antirabbiniche, che osteggiano non la sostanza ma le formalità della religione. Altro elemento da considerare è quello della qualità dell'immigrazione. L'Ebreo non è di natura contadino, lo ha riconosciuto anche Weizmann, e per contro in Palestina sì tratta precisamente di lavorare la terra; ma Weizmann confida nella tenacia dei suoi connazionali. Senonché, mentre in principio gl'immigranti erano sopratutto coloni agricoli, ora è andata sviluppandosi anche l'immigrazione dei ceti medi, piccoli capitalisti che vanno ad impiantarvi delle industrie portando seco un capitale di 500-1000 sterline. Questi, naturalmente, chiedono che l'Organizzazione si occupi anche di loro e destini parte dei capitali che spende annualmente in Palestina a preparare le condizioni per uno sviluppo industriale. L'Organizzazione d'altra parte ritiene che il loro sforzo debba essere secondato nell'interesse del futuro benessere del paese: così per esempio si è cercato di dotare la Palestina di energia elettrica ed esiste un progetto per la completa elettrificazione della regione. Tali attenzioni usate all'industria hanno allarmato gli agricoltori, timorosi di essere sommersi; ed ecco scoppiare una lotta fra campagna e città, che ebbe vivaci ripercussioni all'ultimo Congresso Sionista, per determinare le direttive che debbono presiedere all'impiego dei fondi. Sullo sviluppo industriale si sofferma pure il rapporto redatto dall'Alto Commissario per la Palestina Sir Herbert Samuel all'atto di lasciare la carica. Da questi apprendiamo che Tel Aviv, il sobborgo ebraico di Giaffa, dai 2000 abitanti del 1918 è salito ad oltre 30.000, ed ha tutte le caratteristiche di una città moderna. Si calcolano d'altra parte a 150 le imprese industriali sorte in Palestina dopo la guerra, con un capitale totale di 1.200.000 lire egiziane, di cui 1.100.000 ebraico. Si tratta però sempre di piccole industrie perché, ripeto, la Palestina non è paese di grande industria. Ma ritorniamo all'intervista. In un primo tempo era affluito in Palestina anche un notevole numero di spostati che speravano di trovarvi la Terra Promessa, e che avrebbero costituito un elemento di disordine; ma per fortuna essi sono bentosto scomparsi. Infine occorre aver presente la necessità di armonizzare fra di loro genti che provengono da terre diverse e che portano nella patria comune usi, tendenze e caratteristiche particolari assimilate durante secoli di permanenza in terra straniera: e non parlo della babele delle lingue, fra le quali l'ebraico va affermandosi sempre più. C'è poi il problema dei rapporti con gli Arabi, a proposito del quale premetto qualche cenno illustrativo. L'ostilità tra le due popolazioni risale all'epoca del dominio turco, quando gli Ebrei si adoperavamo per ottenere dalla benevalenza della Porta un regime di Chartered, e si presentavano agli Arabi -ciò che fu grave errore - come amici dei Turchi, di quei Turchi che delle genti arabe ostacolavano la rinascita nazionale, culturale ed economica. Dopo la guerra la creazione del Focolare Ebraico, dando alla minoranza ebrea un'ingerenza notevole negli affari della Palestina e preparando anzi l'assorbimento della regione da parte di una popolazione immigrata, urtò violentemente il sentimento di indipendenza degli Arabi, che si schierarono contro il mandato e per ben tre volte rifiutarono di partecipare alla vita legislativa della regione, per non collaborare in alcun modo all'inviso regime. Più volte si produssero anche conflitti sanguinosi. Anche su questo punto mi piace conoscere il pensiero del Capo del Popolo Ebreo. Weizmann è partigiano di una convivenza pacifica dei due popoli cugini, com'egli giustamente li chiama, e a quei Sionisti che chiedono la conquista armata della Palestina risponde che bisogna conquistarla sì, mai col lavoro. "In ogni caso, fossimo anche maggioranza - egli dice - gli Arabi avrebbero sempre eguali diritti, poiché non abbiamo nessuna velleità di egemonia". E senza dubbio dovrebb'esser così, in base a quegli stessi principii che rendono legittime la rivendicazioni del Sionismo, ed anzi a maggior ragione perché erano oggimai gli Arabi che popolavano il paese. Chiedo se la recente sostituzioni dell'ebreo sionista Samuel col cristiano maresciallo Plumer al governo della Palestina da parte della Potenza mandataria abbia un significato. Weizmann è d'avviso che essa non indichi affatto un mutamento della politica britannica nei confronti dei Sionismo. Ma se essa - io penso - volesse essere una maggior garanzia di imparzialità per tali Arabi, se essa avesse lo scopo di ravvicinare, col tramite di un elemento neutrale, gli Arabi agli Ebrei ed al mandato, essa è da salutarsi con compiacimento. Attualmente mi si dice l'ostilità fra i due popoli si sarebbe d'altra parte notevolmente attenuata, e gli Arabi non si opporrebbero più all'immigrazione. Essi del resto non mancano di risentirne vantaggio quando si spossessano gli effendi (latifondisti) che esercitavano tuttora sui loro dipendenti un potere feudale, o quando si bonificano i terreni e si mette in valore il paese, o quando, con lo stabilirvisi di masse lavoratrici più evolute ed avvezze ad un più elevato tenore di vita, anche i più ignoranti contadini arabi avvertono necessità nuove. Ho chiesto infine a Weizmann quale sarà per essere l'avvenire della Palestina. Egli si è mostrato molto riservato, non volendo fare il profeta, perché, come ha avuto occasione di ripetere più volte in questi giorni con quella sua simpatica punterella d'ironia, in Palestina c'è sempre stata molta concorrenza fra i profeti. Comunque, il mandato britannico ha la durata di venticinque anni, e alla Potenza mandataria spetta essenzialmente il compito di tutelare l'ordine e attenuare gli urti fra le due popolazioni, al fine di permettere il pacifico stabilirvisi del Focolare Israelita. Nel frattempo si spera di poter far entrare in Palestina tutta la gente che questa regione potrà contenere, due milioni circa. Poi si vedrà. Non è escluso, ad esempio, che una sorta di federazione fra le diverse comunità, sul tipo di quella svizzera, possa essere la forma di un Governo di domani. Noi, che al Sionismo siamo necessariamente estranei, salutiamo nel suo avvento l'emancipazione di un nuovo popolo, salutiamo la redenzione di un proletariato che si va operando. A patto che questa emancipazione non si raggiunga a prezzo della libertà di un altro popolo, e con l'augurio anzi che i due proletariati cugini ascendano insieme la strada della redenzione. ANTONIO BASSO.
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