La nuova Austria
L'eredità degli Absburgo
e la funzione di Vienna.
L'eredità di sentimenti che a noi italiani hanno lasciato le guerre del Risorgimento e la simpatia per i "popoli oppressi", non ci debbono far dimenticare la grandezza dell'opera che l'Austria ha compiuto negli ultimi tre secoli, come apportatrice di ordine e di civiltà in tutta l'Europa centro-meridionale.
La lotta contro i turchi, le guerre di successione, le guerre napoleoniche avevano creato sul Danubio una forte capacità statale in una perfetta organizzazione amministrativa.
Se le irruenti e irrefrenabili correnti di nazionalità, che hanno salvato nell'ultimo secolo la vita interna dell'Impero, ne hanno chiesta e prodotta la scomparsa, noi vedremo in questo una riprova della importanza di questo Impero.
Se il centralismo burocratico e il clericalesimo saranno indizio dell'arresto della forza espansiva che partiva da Vienna, la funzione di civiltà non si era arrestata alle frontiere che la monarchia danubiana aveva raggiunto nelle secolari guerre. Dai profughi serbi emigrati in Voivodina partirà la prima voce che ricorderà il dovere di riscossa ai serbi rimasti nella servitù della gleba sotto il dominio dei feudatari e dei grandi proprietari turchi. Per lungo tempo il piccolo Stato serbo troverà nell'Austria soccorso e conforto contro la predatrice signoria turca. La monarchia absburgica sapeva intanto mantenersi al disopra delle lotte di nazionalità (anche dopo i tentativi di tedeschizzazione da parte dei principi illuministi) ed essere centro organizzatore di un forte Stato plurinazionale.
La debolezza di questa organizzazione sarà rivelata solo quando, chiusa la via di Salonicco, fallirà il tentativo di conquista di tutta l'eredità turca.
La scomparsa dell'Impero ottomano doveva segnare, quasi per fatale coincidenza storica, la scomparsa della dinastia che ne aveva arrestato sotto le mura di Vienna l'impeto furibondo e che di territori ad esso tolti si era accresciuta. Quando, con le guerre di indipendenza balcaniche, in virtù dei popoli balcanici stessi, l'Impero ottomano veniva a poco a poco cacciato d'Europa, l'Impero austriaco parve perdere la sua ragione di vita, e quella che era stata la sua alta funzione storica si camuffava in grottesca maschera reazionaria. La monarchia absburgica apparirà di "popoli oppressi", erede dell'odiato predominio turco.
Le lotte di nazionalità, ravvivate anche dall'infelice espediente dell'Ausgleich tedesco-magiaro, germoglieranno con tale veemenza, soccorse dai nuovi Stati formatisi fuori dei confini dell'Impero, che la secolare impalcatura monarchica - irrigiditasi nella lotta di difesa, ma pur ancora capace di sviluppi - sarà travolta in una irresistibile affermazione di libertà.
Ma anche di fronte a queste forze disgregatrici rimangono pur sempre elementi unitari, e questi appaiono ormai legati al nome di Vienna. Quello che di limpida sicurezza, di forza, di ordine è stato nella dinastia degli Absburgo - se non nelle persone, nell'opera storica - appare al visitatore dallo stesso aspetto di quella che fu la loro capitale.
Le ragioni che spingevano la monarchia danubiana ad aprirsi il varco verso il Sud e verso l'Oriente (anche quando questa meta era agli attori stessi imprecisa e il Drang nach Osten non si imponeva ancora sotto la costrizione italiana come politica necessità) trovavano la loro rispondenza nella situazione geografico-economica della capitale.
Chiusa verso nord, verso i rimanenti popoli germanici, dai monti di Baviera e di Boemia, aperta verso sud, verso oriente e verso occidente, per l'ampia pianura danubiana, per i facili colli di Moravia e per i passi che tra Sava e Drava conducono al mare e all'Italia.
Come Vienna era stata il forte baluardo che aveva infranto l'impeto turco, Vienna sarà il punto d'appoggio da cui partirà la nuova conquista, sarà il centro della nuova organizzazione. Un carattere regale e sereno sarà la caratteristica della capitale.
La Vienna odiata dai nostri patriotti ai rivela città moderna e piena di vita e d'avvenire. Attorno all'antica cerchia di mura, mutate in ampi viali e sede di grandi palazzi, segno esteriore di una antica orgogliosa dinastia e di una salda volontà e capacità d'impero, si estenderà la nuova città: i grandi quartieri popolari se non hanno il tumulto febbrile che caratterizza altre metropoli, ne hanno bene la forza. Città vigorosa di industrie e piena di commerci, pulsante di un'unica vita. Lo stile ne sarà severo e grandioso: al barocco e alla magnificenza settecentesca si riallaccerà il nuovo stile che abbellirà la città di grandi costruzioni, in una armonia indizio di forza.
La popolazione si accresceva intanto a dismisura - popolazione di tutte le razze, ma fuse per un meraviglioso dono di assimilazione - e quando - dopo una tragica e sanguinosa agonia di due anni (o di settanta) - in torbide giornate d'autunno, crollerà l'antica dinastia e l'Impero, sarà la grande massa della popolazione, sarà sopratutto il proletariato educato dalle grandi organizzazioni e dalla fabbrica, che apparirà al Governo tra i resti sconvolti dell'antico Stato e prenderà l'amministrazione della città. Miseri resti, confusa ed equivoca volontà e terribile situazione, su cui l'ironia ha facile e direi necessaria presa. Ma questo constatato continuare di una fiducia statale ci dovrebbe salvare da troppo leggero scetticismo. I giornalisti alleati, che dopo la guerra si sono precipitati nella vinta capitale, hanno fatto gara a considerarne, con incredibile superficialità, le sole dissonanze esteriori e a descrivere questa città, affamata, balìa del primo occupante, e parevano soffermarsi solo nell'appariscente contrasto tra una ricca, artificiale vita in alcuni luoghi di lusso sfacciato e la miseria generale del popolo per conto suo facile all'oblio. I tedeschi del Nord parlano con disprezzo burbanzoso della indifferenza viennese.
Ma la vita di Vienna va lentamente, sicuramente, riprendendo attraverso le durissime prove subite, la chiusura di tutti i mercati d'acquisto e di smercio, il tracollo monetario. Le difficoltà in cui si dibattono i nuovi Stati sorti da una più o meno arbitraria delimitazione dei reciproci confini nazionali sono la vendetta postuma della monarchia scomparsa. Vienna ne porta anch'essa le dolorose tracce, ma pare che qualcosa dell'antico potere unitario sia in essa rimasto; forse è destinata ad essere qualcosa più che un semplice punto d'incontro, come è ora l'altra grande capitale decaduta: Costantinopoli. I nazionalisti tedeschi, profetando un'annessione alla Germania, la chiamano l'Amburgo dell'Oriente.
La storia ha pure i suoi diritti; certe situazioni, anche se rovesciate dalle armi e dalle nuove contingenze, accade che si ripresentino. Esse paiono plasmare il suolo stesso: lo straniero che ha percorso rapido le alte valli del Tirolo, la sonante poesia dei laghi salisburghesi, e sul Danubio - chiuso tra l'ampia pianura e le colline del Wienerwald - vede profilarsi lontana la città, non può non provarne una grande impressione. Quell'impressione che forse non danno i luoghi in cui la storia è passata e che ora giacciono abbandonati. Qui la storia si è fermata e tesse ancora le sue fila. Se si scende dal Westbahnhof e veloci si percorrono le lunghe vie della città e poi l'ampio Ring e la Burb, e per il vecchio centro, severo e nobile, si scende al solenne canale del Danubio, ecco, questa impressione si rinforza. Non un retorico sogno imperiale, ma un'armonica costruzione statale ha trovato nelle mura di questa città, dalla linea severa e grandiosa, la sua sede.
Porta dell'Occidente sui Balcani, questa estrema meridionale città germanica ha saputo crearsi una sua storia e una sua fisonomia. È la storia di una grande dinastia, è la fisonomia di un Impero. In fondo il problema politico dell'Austria è il problema di Vienna; i problemi singoli dei vari "Stati successori" - pur così pieni di propria vita e di esasperante e brutale volontà autonoma - sono un poco il problema di Vienna. Negata, per una miope e pavida politica, l'annessione alla Germania, impossibile il risorgere, sotto qualsiasi forma, dell'antico Stato danubiano, il problema rimane aperto.
La creazione del nuovo Stato,
nelle difficoltà del dopo-guerra.
Dalla distruzione dell'Impero era sorta, e si imponeva al nuovo piccolo Stato - creato dalla volontà dei vincitori sulla base degli antichi residui tradizionali - la terribile urgenza di precisi e immediati compiti.
Il problema austriaco - inteso in questo senso minore - si ritrova tutto nelle origini appunto del nuovo Stato: non sorto per volontà autonoma, ma per artificiale imposizione altrui. Il primo atto del proletariato viennese e austriaco era stato la proclamazione dell'annessione alla sorella - anch'essa nuovo-nata - repubblica germanica. Insieme si assumeva la rappresentanza di tutti i tedeschi dell'antica duplice monarchia. Il sentimento nazionale ancora una volta trovava nel proletariato il più valido assertore. Era la soluzione logica e necesaria. Le idealità per cui gli Stati dell'Intesa dichiaravano di combattere, seminate su terreno arato dalla morte e dallo spettro della fame, avevano portato il loro frutto abbondante. Ora le promesse erano naturalmente dichiarate essere state solo "strumento di guerra" e al nuovo Stato, che aveva nel trattato di San Germano la propria fede di nascita e insieme l'unica ragione di vita, si presentava su queste insidiosissime basi un primo compito. E tralasciamo il problema di nazionalità sollevato in ogni frontiera e in ogni Stato confinante dalle minoranze tedesche, e pur problema grave per la pace europea, ma ritrovante la sua eco più nel seno della comune patria germanica che non in quello della minore patria austriaca. Bisognava dunque far scaturire dalla mediocre soluzione di due opposti problemi (problema dell'unità germanica, che ora si presentava, per la prima volta nella storia, ad una possibile integrale soluzione; problema dell'unità danubiana, che ora la più violenta negazione di tutta una plurisecolare comunanza voleva d'un colpo annullare) far scaturire da queste insidiosissime basi, una volontà statale. Quale conforto spirituale a chi si accingeva all'opera si presentavano: la più assoluta incertezza del pur immediato avvenire, l'incubo della disoccupazione e della fame, la catastrofe finanziaria.
Dopo che il manifesto imperiale del 16 ottobre 1918 ebbe data facoltà ai "fedeli" popoli di costituirsi in "Consigli nazionali" (e questo prima ancora che le armi italiane a Vittorio dessero il colpo decisivo alla ormai esaurita compagine statale, ma dopo che la vittoria italiana del giugno sul Piave aveva segnato il lugubre annuncio di morte) parve passare per tutta la monarchia un'unica parola d'ordine: via da Vienna!
Il centralismo viennese aveva lontane origini e una profonda ragione di essere; ma ad esso si opponeva, rifacendosi a tradizione ancora più remota e a più precise, limitate necessità, la volontà autonoma delle provincie. (Facciamo qui astrazione dalle lotte di nazionalità, pur fondamentali nella vita e nella caduta dello Stato austro-ungarico).
Di uno Stato danubiano, nel senso moderno del termine, si può infatti parlare solo dopo il 1806, per non volere scendere addirittura al '66. Le "terre della Corona" godevano di statuti propri e l'imperatore era il signore feudale della terra, quasi feudatario di se stesso. Si formerà così una forte tradizione locale-conservatrice, cementata dalla fedeltà dinastica. Il centralismo giuseppino sarà fortemente eguagliatole, ma solo Napoleone potrà segnare la morte di questa concezione medioevale, a cui si rifacevano volontà e capacità autonome più che altro delle terre tedesche, come quelle appunto che rivendicavano a sé la qualità di membri separati della comune effimera organizzazione che si richiamava al sacro nome di Roma e che si ritenevano ancora ieri legate alla dinastia solo da trattati particolari e dalla libera accettazione della prammatica senzione.
Il legame effettivo era dato poi, oltre che dal fortissimo sentimento dinastico, dalla aristocrazia, classe dirigente. Aristocrazia, e questo è caratteristico per la vita politica, dell'Austria, più civile che militare, capace quindi, anche in tempi moderni, di essere classe dirigente. Se essa, a capo delle Diete provinciali, rivendicava capacità autonome, per essa il centralismo dinastico si riaffermava, e poteva così aversi in Austria (come d'altronde in Germania, sin dopo Bismarck) un governo conservatore-aristocratico, ma non reazionario.
Scomparsa dinastia e classe dirigente nei giorni oscuri di novembre - nei giorni del ribalton, come dovrà chiamarli il sarcasmo istriano - rimarranno solo le velleità separatiste. Contro queste, contro l'incapacità di una piccola borghesia, nazionalista a parole, piena di chiacchiere, si leverà - inconscia erede di una tradizione di secoli - la volontà unitaria del proletariato. Questo si era andato educando nelle grandi organizzazioni che coprivano ormai tutta la duplice monarchia, anche se più esperte in una addomesticata lotta economica che nella affermazione politica, e questo spiega come le giornate di novembre lo abbiano trovato ancora impreparato; e come oggi si possa parlare in un certo senso di fallimento. Ma quello che riesce pur sempre meraviglioso si è come le uniche vere affermazioni nazionali tedesche (non nazionaliste) vengano dal proletariato. Prima la dichiarazione di annessione alla Germania; impedita questa, la ferma volontà di mantenere, almeno, la unità austro-viennese. Non sono certo circoli socialisti quelli che progettavano di un Voralberg annesso alla Svizzera, di un Tirolo Stato cuscinetto tra Italia, sia pure col confine a Salorno, e Germania. In Carinzia si fantasticava addirittura di una unione con l'Italia, salvatrice da colpi di mano jugoslavi su Klagenfurt (o sperata tutrice dallo spettro dei Consigli degli operai di Vienna?). I rappresentanti conservatori del Tirolo non si vergognarono di far pubbliche le loro riserve nella assemblea costituente di Vienna.
Se il nuovo Stato sorgeva con chiara linea federale, non mancava a Vienna una volontà unitaria. Lo Stato austriaco poggerà sulle organizzazioni operaie (socialiste) e su quelle contadine (cristiano-sociali), più centraliste le une, federaliste le altre, ma egualmente unitarie. La base economico-organizzativa, e quindi concreta, di questi partiti ha fatto sì che, anche non rinunziando ai loro ideali (i socialisti sopratutto chiedono l'annessione alla Germania) o ai loro rimpianti, non ne facessero un impedimento per iniziare un tentativo statale. In un'atmosfera di mediocrità forse, ma con qualità solide e tenaci. La responsabilità di governo è stata nei primi tempi quasi tutta dei socialisti, poi è passata ai cristiano-sociali. Questi ultimi in periodo criticissimo, sino all'anno scorso, sotto la guida di monsignor Seipel "il salvatore dell'Austria".
Il dissidio tra le province (eredi delle antiche "terre della Corona") e il governo federale, da dissidio costituzionale qual'era, diventa problema amministrativo.
Merito di aver superato il problema costituzionale è merito socialista; il vanto di avere, pur tra compromessi reazionari, se non vinto, attutita la crisi amministrativo-finanziaria è vanto del partito cristiano-sociale. Era necessario il profondo sentimento unitario del proletariato per impedire che la disfatta politica fosse ancora più grave e perché si salvassero le speranze di avvenire tedesco nei paesi danubiani, ma ora non si può negare che una parola d'ordine federalista trovasse nelle cose una profonda rispondenza.
Le province non erano solo ripartimenti amministrativi come da noi, ma, come abbiamo visto, unità storico-politiche. E questa divisione pare trovi una rispondenza nella varietà stessa della natura. Piccole terre che sentono profondamente la loro individualità, infinitamente più di quello che da noi non si abbia il senso regionale. E maggiore intimità: i Länder austriaci sono ben più paragonabili ai cantoni svizzeri che non alle grandi regioni storiche italiane o francesi. Caratteristico in questo è l'atteggiamento del Tirolo che si può considerare un poco la Baviera dell'Austria.
Ma sul problema federale gravava la crisi finanziaria, la quale aveva costretto la giovane repubblica - dopo vani tentativi da tutte le parti (si era progettata persino una unione economica con l'Italia) - a ricorrere alla Lega delle nazioni. Prestito internazionale e insediamento di un controllore generale a Vienna.
Sorgeva come necessità di vita l'obbligo alle più grandi economie. Solo queste arrestando il processo inflazionista, avrebbero impedito la caduta ulteriore della corona, arrestata per un momento, ad un livello già così basso, dal prestito internazionale; e solo la stabilizzazione della corona avrebbe potuto far sperare in un avvenire economico e politico meno oscuro.
Su questa fragile economia pesava con tutto il suo enorme peso di antica capitale di un Impero. Enorme numero di impiegati, enormi spese.
Le province potevano così additare in Vienna la sfruttatrice delle loro risorse, mentre già solo uno sguardo alla diversa economia poteva far vedere la gravità della crisi. Vienna: tutta industria; le rimanenti province: agricole. La naturale compensazione, nella crisi politico-finanziaria, non aveva più luogo; lo spettro russo si profilava. In queste condizioni, se amministrativamente era possibile desiderare ed applicare la più larga autonomia, un centralismo finanziario si imponeva. Contraddizione che sarà tutta la vita politica austriaca e che ci farà assistere persino ad una quasi-rivolta del comune di Vienna.
Sarebbe interessante studiare tutte le fasi per cui è passata la tutela finanziaria internazionale - ora d'altronde quasi-abolita (e quasi-mantenuta) - attraverso l'opera del commissario Zimmermann, già così cordialmente odiato dalla stampa austriaca; fra cui quella nazionalista, naturalmente, si distingueva per la voce grossa e le tracotanti minacce. Le accuse nazionaliste sono, al solito, molto retoriche e poco dimostrate: demagogia di destra che parla di una liberazione del popolo. Certo qui alla crisi finanziaria-statale si sovrapponeva più forte la crisi economica.
È stato abbondantemente ripetuto che - come d'altronde tutte le altre manifestazioni di vita - l'industria e il commercio austriaci (specialmente viennesi) erano sorti per i bisogni di una grande unità economica. Ora questo campo economico era ridotto quasi a zero. Da un lato l'industria viennese - industria essenzialmente di lusso: metallurgia, automobili, confezioni, mobili, ecc. - si trovava ad avere, anche se non fossero sorte barriere doganali, un mercato enormemente impoverito e l'antica aristocrazia acquirente ridotta alla miseria o emigrata; le nuove barriere doganali poi finirono per annullare del tutto (o quasi) questo mercato. Dall'altro lato Vienna cessava di colpa dall'essere l'antico centro finanziario di prima; tutta la vita finanziaria dell'antico territorio è fatta gravitare oggi verso altri centri sottoposti più facilmente, nonostante le volontà autonome, all'influsso straniero. Le diverse filiali bancarie si staccano dall'antica casa madre e si costituiscono in nuove Banche indipendenti. Praga si affaccia come un pericoloso concorrente.
Non è detto che questo sia un danno per l'economia generale, ma per quella viennese è un colpo forte. Le Banche a Vienna ebbero una spettacolosa epoca illusoria di fortuna nei tempi gravi dell'inflazione; grandi ricchezze si accumularono, ma altrettanto facilmente sono scomparse e dopo la situazione rimase più grave.
Ora il punto morto pare in un certo modo superato. La corona si è stabilizzata e convertita in scellini; le finanze statali (avvenuto un equilibrio tra organizzazione finanziaria federale e provinciale) hanno raggiunto il pareggio; le industrie non vedono più un così nero avvenire dinanzi a loro; la disoccupazione, anche se aumentata in questo ultimo anno, non è eccessiva, salvo (almeno sino all'anno scorso, in seguito sopratutto ai grandi licenziamenti d'impiegati statali e ai fallimenti lanieri) quella impiegatizia; ed infine la nuova amministrazione appare stabilmente organizzata intorno alla parola d'ordine: "lo Stato agisce attraverso i Länder", anche se dalle province sorgono accuse di troppo centralismo.
Ma comunque, si vive ancora nell'incerto. Il tempo sana molte cose, ma le ferite erano troppo gravi. E sarà intanto interessante vedere come la perdurante incertezza e la crisi economica si ripercuotano sulla politica.
I socialisti da un pezzo non sono al potere anche se hanno saputo mantenersi all'Amministrazione di Vienna, e non dovrebbe essere facile indicarli come i colpevoli di tutti i mali di cui soffre la giovane repubblica. E i cristiano-sociali, anche se per loro non mancano accuse di "demagogia", si tengono pur sempre sul terreno della conservazione. Né al Consiglio Nazionale, attraverso un parlamentarismo molto burocratico, hanno luogo scene "disgustose". Ma la "ragionevolezza" degli avversari pare ormai non basti più a disarmare lo spettro reazionario. Alle piuttosto disordinate sfilate dei difensori della repubblica si oppongono le militaresche parate dei nazionali, mentre gli Hakenkreuzer anti-semiti, in questo spalleggiati dai cristiani, iniziano le loro brillanti imprese al Praterstern e nei caffè viennesi del centro.
Questo pericolo reazionario non sovrasta certamente in forma pericolosa, e le organizzazioni operaie sono ancora abbastanza forti per rintuzzarlo.
Tuttavia se la vita unitaria, attraverso il federalismo pare rifiorire, se Vienna riprende il ruolo di capitale anche di fronte al suo piccolo Stato, e l'influsso e la vita viennese si ripropagano per tutto il paese, egualmente qualcosa d'incerto permane.
Non bisogna dimenticare che siamo di fronte non ad una libera creazione come la Svizzera, svoltasi e accresciutasi in una lunga tradizione secolare, ma ad una soluzione obbligata, costruita su elementi tradizionali disparati. La tradizione danubiana e la tradizione e l'influsso germanico, invece di consolidare, minano la compagine statale.
Su questo dissidio si esercitano le capacità drammatiche e liriche dei circoli nazionalisti tedeschi che amano far apparire l'Austria navicella abbandonata in balìa dei venti e delle correnti avverse, e che solo potrà essere salvata se si saprà saldamente attaccare alla solida nave germanica. Gli austriaci si accontentano di ripetere, in tono minore, ragioni economiche, offesi spesso dalla "mancanza di tatto" dei loro fratelli settentrionali.
L'Austria non crede che poco alla saldezza del proprio avvenire. Sentiamo gli argomenti che si ripetono. A soccorrere l'economia austriaca vi è necessità di qualcosa di più che l'abolizione dei dazi proibitivi da parte degli altri "Stati successori". Abolizione di dazi, d'altronde, di cui i nazionalisti Stati vicini, nonostante i platonici consigli della Lega delle Nazioni, non vogliono assolutamente sentir parlare, già restii ad una pur minima riduzione delle tariffe nella loro volontà di crearsi una propria, anche se artificiale, economia di guerra. E rimarrebbe pur sempre a danno dell'Austria un fortissimo protezionismo amministrativo a cui nessuno Stato, anche aboliti i dazi, vorrà rinunziare. Vienna non potrà mai in ogni caso tornare il centro finanziario di prima.
Viene prospettato come necessario che l'Austria diventi di nuovo parte di una grande unità economica, per la quale essa è organicamente cresciuta e nella quale solo potrà adempiere le funzioni alle quali la chiamano la natura, la civiltà e la storia. L'industria austriaca è oggi tutta industria d'esportazione; per vivere ha bisogno di un vasto mercato interno che la faccia solida a sostenere pericolose concorrenze.
È ridicolo pensare che dopo una sì lunga guerra e dopo lo sforzo dei popoli si ritorni tranquillamente all'Austria di prima. Solo la Germania può dare all'industria austriaca quel mercato interno che le è necessario, acquirente con la sua ricca borghesia dei prodotti della Qualität-gewerbe viennese. Ma sopratutto, come prima la Boemia aveva il suo centro, commerciale-finanziario in Vienna, così l'industria germanica troverà in Vienna il suo centro d'esportazione orientale. Vienna tornerà ad essere il punto d'incontro tra i popoli balcanici e le grandi nazioni occidentali.
La situazione non è da drammatizzare; le ragioni economiche possono convincere sino a un certo punto e sono state infatti, in parte, sfatate dagli "esperti" di Ginevra. Ma il problema non è economico e la crisi e la delicatezza della situazione austriaca sono innegabili anche se, pur attraverso il denunciato dissidio, non possiamo non notare una consolidazione, sia pure provvisoria, della costituzione statale austriaca. Già Seipel parla di distinzione tra Stato e Nazione: due Stati divisi, austriaco e tedesco, e una sola nazione, germanica; i confini tra Austria e Germania non sono una creazione di oggi, ma una delimitazione antica, fondata su ragioni non superficiali.
Ben più artificiose costruzioni statali hanno saputo resistere e trovare una loro ragione di vita.
Ma a quale prezzo?
La Germana e i Balcani
Una vera soluzione del problema austriaco non si avrebbe che attraverso una totale revisione di tutta la politica estera europea. L'annessione dell'Austria alla Germania aveva per sé tutte le promesse di guerra e di pace dell'Intesa e nella maniera più assoluta rispondeva a quel principio di autodecisione dei popoli per il quale si era detto, da parte dell'Intesa, di combattere; per essa si sarebbe compiuta l'unificazione dei popoli tedeschi, che è, con quello italiano, il più grande movimento di libertà delle nazioni moderne; ma alla domanda dell'Austria tedesca di unirsi alla repubblica germanica fu opposta, con ipocrita formula, una negazione; ed oggi questa proibizione si riconferma.
La Germania sconfitta e disarmata, pare faccia più paura ai suoi vincitori di quando, armata e combattente, stava loro dinanzi in campo. E il tragico della situazione europea è qui. Nessuno pensa ad uscire da questa situazione, nella quale le oppressioni più ingiuste pare trovino un'apparenza di giustizia.
Così per la questione austriaca. La scomparsa della monarchia absburgica è un fatto da mettersi in relazione alla situazione germanica non meno che a quella italiana e balcanica e la sua successione spetta logicamente ai popoli liberati e a Italia e a Germania.
Lo Stato austriaco, costretto ad una volontà di vita autonoma dalla opposizione specialmente di Italia e Cecoslovacchia ad ogni pensiero di unione con la Germania, troverà forse un suo equilibrio in cui rivivano le antiche tradizioni attraverso le solide qualità del suo popolo. Ma nei Balcani il disordine e la prepotenza dei piccoli Stati vincitori e gli intrighi rimarranno senza freno, fomite di dissidi e di guerre. Il senatore Sforza in un chiaro articolo (Corriere della Sera del 12 settembre) in cui valuta le capacità autonome dello Stato austriaco, che egli ritiene "utile avere, per un pezzo ancora, vicino di frontiera", ha accennato al pericolo di una ricostituzione danubiana. La sua opera di Stato nell'Europa centrale era infatti indirizzata contro quel pericolo. Una Germania al Brennero, anche se poi venga ad avere una popolazione maggiore di quella anteguerra (intelligente preoccupazione nazionalista), è, io spero, molto minore pericolo per L'Italia di quello che non lo sia una Europa centrale divisa e balcanizzata o, peggio, unita contro di noi. Anche senza annessione, la Germania pare già quasi si affacci sul Danubio, a Vienna, anche dopo la sconfitta e in una volontà di rivincita che appare giustizia, a orgogliosamente riaffermare che molto di quello che è civile nell'Europa balcanica è tedesco; mentre la funzione dell'Austria monarchica potrebbe essere ripresa, in via pacifica, dalla Germania repubblicana.
E questo appare un pericolo per chi teme una volontà guerriera tedesca e non pensa che possano esistere funzioni civili e pacifiche nella storia e che ai popoli (tutti) la libertà e la pace siano care. Creando il mito di un "pericolo tedesco" si crea veramente una volontà e necessità di guerra, mentre una illuminata politica, togliendo le cause del dissidio violento, apre il mondo alle pacifiche gare.
Vienna, ottobre.
MARIO LAMBERTI.
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