Problemi di pace

    Usciti pur ora da una ben grave tempesta, in cui non solo dieci milioni di uomini hanno fatto mortale naufragio, in cui non solo scomparvero preziosi freni materiali, ma gli stessi valori morali parvero soppressi, non è fatuo sogno il pensiero di chi vuol lottare per la pace e per una unità europea. Non è sciocca ed imbelle utopia quella che sta sulla cima dei programmi dei partiti democratici, anche se ad essi, presi dal groviglio della situazione attuale, mancano le forze politiche capaci di imporre la voluta soluzione, e la loro si riduce forse a poco più che propaganda ed azione individuale di uomini come Loebe, Nitti, Herriot. Non è ideologia rabbiosamente sovversiva quella che sulla rossa bandiera di Mosca scrisse la parola di unione a tutti i proletari.

    Il pacifismo wilsoniano, l'internazionalismo leninista - usciti dalla guerra - poggiano, l'uno e l'altro, su cause più profonde: sulla ribellione operaia e sulle necessità economiche dei nostri tempi.

    Quello stesso capitalismo che nel suo "ascetismo dell'azione", perso di vista il cielo per le aspirazioni terrene, ci ha travolti in questa sanguinosa crisi decennale, pone le basi per una ripresa unitaria della vita. L'unità economica europea è un dato di fatto che si afferma anche contro, e attraverso, i suoi negatori teorici; mai come dopo questa guerra il vincitore ha avuto così bisogno del vinto e la grandezza di ciascuna reazione è stata in funzione della grandezza e della prosperità delle reazioni vicine: il legame è strettissimo e composto di mille invisibili fili. La ideologia della Lega delle Nazioni risponde a questi presupposti di unità.

    Ad essa si oppone - uscita dall'irrefrenabile aumento di potenza del capitalismo - la rivolta operaia; piena di volontà di riscossa e di ribellione, si pone anch'essa, decisamente, sul terreno internazionale. Così l'irrevocabile dissidio, che pare avere in Ginevra e in Mosca i due antagonisti senza possibilità di comprensione reciproca, si rivela dissidio di ideologie uscite da una stessa radice economico-morale.





    Ma vi saranno conciliazione di ideologie: ma da questa travagliata unità economica - che si afferma contro barriere di ogni genere - da questa ribelle volontà che, in varie forme, serpeggia in tutti i paesi (e il cui internazionalismo è prodotto riflesso assurto a dignità di sentimento elementare) può forse sorgere una più sentita e profonda unità, per cui la necessità della pace si ponga, non come mito o utopia ideale, ma come problema concreto: necessità e volontà di organizzate masse popolari. Le utopie trovano così una conferma pratica e questa una rielaborazione morale. Come tutti i problemi politici, questo è anche infatti, e sopratutto, problema morale. Una volontà politica non si impone, non ha forze di attrazione sugli altri uomini e sulle folle, se prima non è stata elaborata nella coscienza dei singoli.

    Un poeta ha inteso questo: "Perché la giovinezza, pure così ardente e generosa, vi tratta oggi con tanto disprezzo? Pacifista? Sente essa, nella sua sete inestinguibile di sacrificio, che il vostro no non è nessun sì per una fiamma?... Indovinano essi nei pacifisti l'assenza di energia?..." (FRITZ VON UNRUH, dal discorso Unser Schicksal).

    Il pacifismo è stato infatti troppo spesso inteso come il più comodo degli ideali; ad esso si opponeva il patriottismo, appellantesi al sentimento di patria, che come "superamento e sacrificio di se stessi" è fatto morale di tale importanza che tutta la storia ne è impregnata.

    Si tratta di portare questa volontà ideale di libertà, di eguaglianza, di fratellanza, che è, ancora oggi, la più grande richiesta dei tempi moderni, sul terreno concreto della storia. I problemi morali, in quanto politici, sono anche problemi di forza. Di una rivolta morale, che è rigermogliata nell'animo degli uomini dalla terribilità stessa della strage a cui hanno partecipato o a cui hanno assistito, o, prima, dal sentimento della propria servitù ad un padrone spietato senza volto e senza nome, bisogna appunto fare una forza politica, che basandosi su una precisa realtà porti l'utopia fra gli uomini come necessità di vita. Solo così si potranno superare le divisioni e i dissidi europei.





    Il mito dell'Internazionale può rivelarsi attuatore di unità europea, come è già suscitatore di nuove energie nei popoli addormentati in una inerzia secolare. Ci vuole non meno di tutta la forza vergine che è nascosta nel movimento proletario, capace di un'energica volontà di lotta per conquistare a sé e agli altri altri la libertà, per abbattere le mille barriere che separano le nazioni e le dividono con un'asprezza che alle volte appare irrimediabile; ponendo il pacifismo su un terreno e su forze concrete, saprà insieme dare agli uomini energia e capacità di devozione, senza delle quali il pacifismo è veramente una fiacca utopia.

    In un'Europa che è ancora in piena crisi di guerra, mentre tutto pare destinato a dividerla, la democrazia di tutti i paesi guarda alla Lega delle Nazioni. Illusioni. Oggi, di fronte agli "utopisti", non mancano di avere ragione i "pratici" (intediamoci: i veri pratici, non i realpolitiker dalla retorica guerresca) che nella Lega vedono semplicemente "un ottimo arnese diplomatico" atto a creare alla diplomazia di tutti gli Stati un'atmosfera conciliante e un punto d'incontro, ma non più.

    Se oggi, infatti, problemi di riparazioni, di garanzie, di sicurezza - nell'impoverimento e nel dissanguamento generale e nel disarmo obbligato di una delle parti contendenti - possono a Ginevra avere soluzione ed accomodamento, i dissidi e le rivalità tra Stati rimarranno.

    Può venire il giorno in cui ritorni all'orizzonte il segno di guerra: allora, d'un colpo, veramente, non più solo nella retorica degli avventurieri, ma in tutte le coscienze, si porrà il problema dell'esistenza della propria reazione, e la democrazia si troverà di nuovo, nelle sue speranze di pace, con il solo presidio di patti e di protocolli, dichiarati da una rude voce soldatesca nuovi "pezzi di carta", o, con più sottile diplomatica astuzia, fatti tornare a proprio profitto da chi è ormai deciso, o costretto, alla guerra.





    Si cercherà di correre ai ripari, ma sarà troppo tardi. Il nostro amore per la pace non ci deve far dimenticare che la guerra è stata sempre creatrice di alti eroismi e pare quasi destinata dal fato ad essere la leva della storia, il tragico scempio su cui si leva la grandezza umana. Gli espedienti dei diplomatici - a cui ci saremo affidati - sono sempre, come le abilità di una immaginaria tecnica della pace, soltanto risoluzioni provvisorie, né - onestamente - chiedono essere di più; e sarà troppo tardi per combattere una eredità che pare quasi ormai essere parte del nostro essere.

    Se vogliamo fare della attuale politica estera la futura "politica interna" d'Europa, la via deve essere un'altra. Sin quando rimarremo fermi alla organizzazione attuale degli Stati, la melanconica saggezza dei diplomatici avrà mille ragioni su di noi "utopisti". E saremo, se non altro, veramente traditori di noi stessi se a noi non rimarrà che ritirarci "al disopra della mischia" in un qualche angolo svizzero. Intanto le religioni, ritornate nazionali, invocando nel cielo la pace di Cristo, benediranno sulla terra le bandiere dei combattenti, che ritorneranno a morire "per Dio e per la Patria". E il destino umano forse è questo: immutabile.

    Ma se noi, pur non rifiutando la prova diplomatica, sapremo non lasciarci imprigionare dal passato, allora l'avvenire potrà essere nostro. Il problema appunto è di rinnovare, nell'interno dei singoli Stati, le ideologie e di preparare forze politiche, che non si limitino a chiedere e ad attendere che le vecchie impalcature statali si uniscano, ma siano già esse una forza unitaria. Le forze proletarie sono per loro natura tali. Un'unità europea non si avrà che attraverso un totale rinnovamento dell'interno che dilaghi dalle frontiere dei singoli Stati.

MARIO LAMBERTI.