LETTERE DALL'INGHILTERRA

La politica mondiale del dopo-guerra

    Bibliografia: Lowell: The Government of England, 1919. - Ramsay Muir: A Short history of the British Commonwealth, 1922. - Ramsay Muir: Liberalism and Industry, 1920. - G. M. Trevelyan: British History in the XIX Century, 1922. - Rowntree: Poverty, 1922. - Hall: The Constitution of the British Commonwealth, 1921.

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    E' da un anno che ho promesso alla Rivoluzione Liberale una serie di articoli sull'Inghilterra contemporanea, nonostante io viva in Inghilterra da vent'anni; ma è solo ora che oso cominciare ad inviarne qualcuno. La caduta di Llyod George segna un punto di riferimento ben definito; segna la fine, nella politica interna come nella estera, del periodo anormale cagionato dalla guerra e segna l'inizia del ritorno alla distinzione normale dei partiti e alla normale vita parlamentare. Per di più nel frattempo sono apparse alcune opere, come le sovramenzionate, che ci dicono come alcune tra le più vigili, acute e simboliche intelligenze inglesi, arrivano a considerare il momento attuale; opere essenziali anche a chi è vissuto da vent'anni, da osservatore e da studioso e nonostante questo e forse a cagion di questo sente di aver ancora molto da imparare, sente l'Inghilterra ancora immensamente giovane e vigorosa e crede di aver acquistato un certo senso di prospettiva nel giudicare di uomini e di cose. Più si vive in Inghilterra e più ci si accorge della necessità di questo senso di prospettiva. In un paese che non ha costituzione scritta e in molte delle cui costumanze è necessario, per rendersene conto e per sentirne il peso, riconoscere come influenze pur ora vive la conquista sassone e la normanna; in un paese in cui non esiste ancora, ufficialmente almeno e nelle norme di precedenza cerimoniale, il Gabinetto, senza questo senso di prospettiva si cade in errori, che tolgono ogni valore ai nostri giudizi di fronte a ogni Inglese colto. Ad esempio l'opera sull'Impero Britannico, scritta dal De Ruggiero dopo e durante non più di sette mesi di dimora in Londra, risente di questa deficienza sotto più riguardi. Egli ha presa sul serio, ad esempio, il partito del lavoro e molte agitazioni che gli parvero scuotere dalle fondamenta la compagine britannica; che certo parvero gravi anche a molti Inglesi, specie se giovani e se lette sui giornali, come se l'Inghilterra fosse quasi alla vigilia di una vitalità di idee e agitazioni socialistiche a tipo continentale. Gli è sfuggito il contrasto tra il temperamento celtico, a tipo continentale, dei capi socialisti più in vista e intellettuali da un lato e il temperamento della massa operaia, in fondo profondamente insulare e conservatrice: in fondo nella vita politica e sociale inglese non solo il partito del lavoro non ha mai contato molto ed è più che mai in cattive acque ed alla vigilia di contar anche meno, ma sta passando per la stessa crisi per cui passa il socialismo continentale; ed ogni Inglese che sappia i fatti suoi non ne ebbe mai il minimo dubbio. Similmente e per ragioni cui ritorneremo più sotto, al De Ruggero certe agitazioni nazionali del dopoguerra in seno all'Impero Britannico parvero più prossimamente minacciose che non fossero; gli è sfuggito che precisamente in ragione della solidità e tranquillità normale della vita britannica, la stampa ha un carattere allarmistico, inevitabile per scuotere la pubblica opinione, di cui occorre tener conto. Anche durante la guerra occorse organizzare vari panichi giornalistici!

    E questo senso di prospettiva, che dicemmo necessario, per quanto io creda di possederlo, viene certo opportunamente integrato dalle opere surricordate. La prima è la più autorevole opera americana sull'Inghilterra politica; è per l'Inghilterra ciò che l'American Commonwealth di Lord Bryce è sugli Stati Uniti; e l'opera non sarebbe certo stata dedicata a Lord Bryce senza essere riconosciuta degna di lui; è un'opera classica di uno straniero intelligente e viene fino al 1919. Ad essa dovremmo aggiungere la corrispondenza di recente pubblicata tra Wilson e il Page, l'ex-ambasciatore americano a Londra, testé morto. E' una corrispondenza di carattere eccezionale per chi voglia studiar l'impressione che l'Inghilterra in guerra fece ad un osservatore finissimo, che ebbe occasioni infinite, ad esempio nel mentre s'occupava di prigionieri inglesi in Germania, di ammirare lo stoicismo orgoglioso delle madri e delle vedove; o in momenti tremendamente bui, di constatare la fortezza d'animo e la fede incrollabile di ministri e deputati e pari, nonché di gente del popolo. Non è certo nelle lettere confidenziali del Page a Wilson che si può sperar di trovar constatazioni di decadenza morale britannica. Esse hanno fatto tale impressione che, si propone di inaugurargli una lapide nell'Abbazia di Westminster.





    Un'opera non meno importante è quella del Rowntree: è uno studio sulla povertà nella città di York, pubblicato or son vent'anni e divenuto classico e- pubblicato ora con nuovi dati e con una nuova introduzione, nella quale il Rowntree, che, col defunto George Cadbury, è non solo un riuscitissimo modello industriale, ma anche un grande filantropo e sociologo, constata che durante questo periodo e non ostante la guerra il benessere delle classi operaie, il loro tenore di vita, i loro rapporti con gli imprenditori, la loro coltura e umanità si sono immensamente elevate. Queste testimonianze del Rowntree e del Lowell valgono più di tante brillanti geremiadi come quelle recenti del Masterman e del Villier, che sono dei meri impressionisti del giornalismo.

    E veniamo alle due maggiori tra le pubblicazioni surricordate. In ordine di importanza e mole viene prima la Short History del Ramsay Muir dell'Università di Manchester. E' tutt'altro che short: è in due volumi di circa 8oo pagine ciascuno: la sua originalità sta in questo, che mentre fin qui la storia dell'Impero Britannico venne scritta quasi come se non fosse che un'accidentale e ingombrante escrescenza della storia dell'Inghilterra propriamente detta, questa del Ramsay Muir ce la presenta come una espansione organica di questa e ne studia le radici nella stessa formazione dei popoli delle Isole Britanniche, sprofondando l'analisi fino a quel primo fatto capitale della storia britannica che fu lo staccarsi delle isole dal continente europeo; per di più la storia britannica non è più insularmente studiata a sé, ma come in relazione a quella dell'Europa. Il primo volume arriva fino alla guerra dei sette anni; il secondo tratta della perdita del Secondo Impero Britannico - il primo era stato perduto col perdere gli antichi possedimenti dei Re inglesi in Francia - con la secessione americana e dello sviluppo del terzo impero, dalla scoperta dell'Australia e dalla conquista dell'India fino alla Pace di Versailles del 1919; e ne tratta, tranne inevitabilmente nell'ultimo capitolo, con una imparzialità più degna di una Commissione Reale d'inchiesta che d'uno storico che ha passioni e punti di vista particolari. Questo secondo volume coincide, come contenuto, con quella del Trevelyan, pur essa imparzialissimo, sebbene più artisticamente vivace e colorito. Siccome poi tanto il Ramsay Muir come il Trevelyan son d'indubbia ed avanzata fede liberale, questi due volumi sono significantissimi documenti dell'evoluzione del liberalismo stesso. Nel mentre or non sono ancora vent'anni era di moda tra i liberali il parlar delle colonie come di mele destinate, quando saranno mature, a staccarsi dall'albero materno e perfin desiderare questa separazione; nel mentre ancora nel 1911 uno storico e uomo di stato di primo ordine come Lord Morley, metteva in ridicolo l'idea che l'Australia e la Nuova Zelanda si sarebbero scomodate a inviar volontari in aiuto della Metropoli impegnata a difendere l'eventualmente violata neutralità belga, benchè il Ramsay Muir come il Trevelyan siano ovviamente orgogliosi della preservata unità imperiale e non pessimisti rispetto all'avvenire. Il Trevelyan vede l'avvenire almeno non più ricco di pericoli che di splendide opportunità, come il passato, ed il Ramsay Muir, in compagnia con un altro pur egli insigne storico vivente e pur egli liberale, il prof. Pollard dell'Università di Londra, è ben lungi dal contemplar come imminente la fine dell'Impero e dal contemplar come impossibile che esso arrivi a darsi a poco a poco una più organica unità. Del resto è questa una convinzione che io trovo diffusa in persone d'ogni parte dell'Impero e d'una certa coltura politica, con le quali mi fu dato discutere. Quando vien posta loro la questione dell'eventuale separazione, esse rispondono quasi invariabilmente: Not in my time; Not for fifty years at least (Non mia vita natural durante, oppure: non prima d'un cinquantennio).





    Nel mentre sul continente si ama spiare i segni della sperata o temuta disintegrazione, in Inghilterra si preferisce insistere sul fatto che nel 1914 nessuno avrebbe osato profetizzare che l'Impero sarebbe riuscito a mantenersi uno e ad espandersi, nonchè a inviar tanti aiuti all'isola madre. Il Ramsay Muir richiama in particolar modo l'attenzione dei suoi lettori sul fatto che la conservazione dell'unità, sia pur soltanto in gran parte formale e sentimentale, tra Metropoli e Dominions, valse a vincere fin dal 1914, da parte dei Dominions, distanze geografiche e storiche che gli Stati Uniti non vinsero che tre anni dopo e valse ad assicurare fra truppe britanniche d'ogni parte dell'Impero una coesione e cooperazione quale non fu possibile avere tra truppe britanniche e truppe di altri paesi, incluse le americane. Né è solo nella compagine imperiale, sibbene anche nella sociale, che in complesso tutti gli osservatori, sia britannici, sia stranieri, convengono nel ricevere una impressione cumulativa di solidità. Durante gli ultimi formidabili scioperi minerari, la cosa che più colpiva gli osservatori stranieri nei distretti carboniferi fu la frequenza e perfetta naturalezza con cui minatori, direttori e proprietari di miniere giocavano assieme a foot-ball e con cui i primi sceglievano speso a giudici persone di ambedue le categorie sociali e questo nonostante i comizi sonori di predicazione anticapitalistica. E del resto chiunque abbia constatato come in occasione del Derby tutte le classi siano assolutamente pervase dallo stesso spirito e godano in mille modi di mostrarsi cordiali; o come in occasione delle nozze della principessa Maria i quartieri popolari fossero i più imbandierati e il commento generale e il modo più comune di esprimersi fosse: "Precisamente come una di noi"! non può a meno di arrivare alla conclusione che, nonostante un secolo di industrialismo e di crescente urbanismo, il popolo inglese nel suo insieme è rimasto psicologicamente se stesso, sostanzialmente moderato, rispettoso delle tradizioni e della gerarchia, più o meno pur nei radicali, non poco snobbish, desideroso di sentir tutte le campane, geloso della libertà di decidersi senza soverchie pressioni esterne, ansioso di fronte alla propria coscienza di almeno parer dalla parte del giusto. Tutto sommato esso è ancora più liberale che democratico, più ansioso di far bene il passo che occorre immediatamente fare, che di perseguir lunghi piani e figger lo sguardo nel futuro.

    E' su questo sfondo di generale solidità che occorre collocare le principali conseguenze della guerra per gli Inglesi, se vogliamo cercar di comprendere le probabili linee della futura politica britannica. Più studiamo le vicende dell'ultima guerra e più divien chiaro che chi vorrà trovare il principale coefficiente della vittoria degli alleati, dopo i coefficienti morali, dovrà cercarlo nel fatto che durante il corso del secolo XIX l'industrialismo britannico rese possibile un tale aumento di popolazione da necessitare il libero scambio. Un paese che per tre quarti vive di commercio estero e marittimo, una volta che è passato al libero scambio non può più abbandonarlo. Potrà temporaneamente qua e là leggermente deviarne, ma non potrà più diventare sostanzialmente protezionista. Ora l'adozione del libero scambio ebbe due conseguenze: la prima fu una enorme accumulazione di ricchezza, senza la quale non sarebbe stato possibile l'immenso sviluppo delle ferrovie, dell'agricoltura e delle industrie minerarie nei paesi transoceanici, inclusi gli Stati Uniti; la seconda fu che il libero scambio rese tollerabile al mondo lo sviluppo dell'Impero Britannico e la supremazia navale britannica. Dal 1878 in poi si può dire che le annessioni territoriali britanniche furono le sole che non significassero creazione di mercati chiusi. Per effetto del libero scambio britannico tutto il mondo era ammesso a partecipare in qualche misura ai benefici della ditta John Bull and Co. Ltd. Questa non era un monopolio. Se questa fosse stata un monopolio e la flotta britannica fosse stata il suo scudo, il mondo non si sarebbe trovato a lato dell'Inghilterra contro gli Imperi Centrali. V'è di più. Senza il libero scambio inglese non vi sarebbero stati i capitali per prestiti di guerra, non vi sarebbe stata una adeguata marina mercantile e lo stesso aiuto dell'America o sarebbe venuto troppo tardi o non avrebbe potuto venire. Ora La guerra non ha modificato questo fatto fondamentale che la sproporzione tra le risorse del suolo della Gran Bretagna e la sua popolazione la obbliga a una politica fiscale sostanzialmente liberistica, la obbliga a una politica internazionale intesa ad evitare disturbi al commercio internazionale e marittimo, la obbliga a una politica navale non aggressiva e non monopolistica. La guerra ha anzi accentuato questo fatto. Pel fatto che la flotta britannica non bastò da sola a vincere la guerra sottomarina, l'Inghilterra ha perduta la sua supremazia navale mondiale. Virtualmente questa è passata agli Stati Uniti, che per popolazione e risorse sono ora di gran lunga, virtualmente, lo stato più ricco e più forte, almeno fino a che - se mai - lo sviluppo dei Dominions arrivi a ristabilir l'equilibrio fra Impero Britannico e Stati Uniti. Nell'intervallo la supremazia navale britannica resta limitata all'Europa, condizione che l'Inghilterra proceda sostanzialmente d'accordo con gli Stati Uniti. Epperò le ragioni per una politica pacifica e liberale sono anche più forti che non fossero fino a ieri. Le ragioni di ieri – scaturenti dalla situazione demografica interna – restano; e vi si aggiunge la necessità di non urtar l'America e spingerla sulla via di una effettiva e non solo potenziale supremazia navale. Ed a queste si aggiungono quelle scaturenti dalla necessità di prevenire e impedire attriti tra Stati Uniti e Giappone, tra Giappone e Dominions. Chamberlain invitò gli Inglesi a pensare imperialisticamente, la situazione del dopoguerra li obbliga a pensare planetariamente, a far da intermediari tra l'America e l'Europa e tra l'America e l'Asia. V'è di più. II persistere dell'America a pretendere il pagamento del debito inglese di guerra – forse per impedire il più facile ritorno alla supremazia navale? – e la recente tariffa americana che con l'intensificare la protezione rende più difficile il pagamento di tal debito, spingono l'Inghilterra sulla via di una più intensa e sistematica messa in valore di tante risorse fin qui neglette dell'Impero, specie dei tropici, onde a un tempo pagar, tal debito con i profitti di questa e attenuare sempre più le proprie crisi industriali e la propria dipendenza, in qualche misura insopprimibile, dal continente europeo. Insomma la situazione mondiale del dopoguerra, aggiunge alle precedenti nuove ed urgenti ragioni perchè il punto di vista inglese si faccia meno insulare e divenga anzi il punto di vista avente più punti di contatto con gli interessi comuni del resto del mondo. V'è un senso in cui l'Inghilterra si avvia a divenire il sensorio mondiale. Chi non tiene presente queste conseguenze della situazione economico-demografica inglese nata nel secolo XIX, approdata al libero scambio e ad una politica navale e marittima liberale, ed integrata dalla situazione del dopo guerra, non capisce, non può capire nulla della politica internazionale inglese. Precisamente perchè nessuna nazione è più esposta a risentire nella sua vita economica quotidiana le menome ripercussioni di perturbazioni nella pace e nel commercio mondiale, la sua tendenziale politica internazionale - a differenza di quella di nazioni più bastevoli a se stesse - lunge dall'essere più non può a meno di essere meno egoistica delle altre. Fino a ieri il suo istinto di conservazione la rese arbitra tra le contese continentali per l'egemonia europea e la rese, or direttamente ora indirettamente, strumento ed esempio di sviluppo di nazioni indipendenti e di libere istituzioni politiche; oggi il medesimo istinto, sotto la pressione della situazione economico-demografica, ne fa lo strumento d'una politica continentale di conciliazione e di sintesi economica.





    V'è di più: il fatto fondamentale della storia britannica, secondo il Ramsay Muir, la separazione delle Isole Britanniche dal continente, sta rapidamente perdendo la sua importanza a cagione dello sviluppo dell'aviazione. La Manica non è più una gran difesa; non vale le Alpi. L'aviazione, le mine, i sommergibili vanno minando gli antichi coefficienti di sicurezza: conseguenza: la miglior sicurezza va cercata promuovendo la pace comune. Fino a ieri l'Inghilterra poteva, dopo essere intervenuta a rimuovere un pericolo, ritrovarsi nel suo isolamento fino a che il pericolo riapparisse; poteva permettersi il lusso di una certa miopia. Oggi non può più; oggi essa è vitalmente interessata alla pace europea; o riesce ad organizzarla o sarà trascinata nell'abisso comune. Il suo intervento dovrà farsi permanente, sistematico. Essa dovrà avere un punto di vista più largo di quello delle nazioni continentali per trovar tra esse punti di contatto e di compromesso reciproco e per rendere a poco a poco l'Europa qualcosa più di una mera espressione geografica: la Lega delle Nazioni diverrà sempre più la sua direttiva politica naturale. Non a caso essa è accettata da tutti i partiti: la sicurezza per terra e per mare in tutto il mondo, se è un interesse comune a tutti i paesi, è l'interesse supremo di un paese che per tre quarti vive d'importazioni; che è un'isola e che ha una popolazione ancora in rapido aumento.

    La Lega delle Nazioni sarà imperfetta fin che si vuole, sopratutto essa richiede già di essere ripensata ne' suoi metodi e semplificata nel suo funzionamento; ma è un nucleo, un organo permanente di consultazione, cooperazione e contatto, innanzi al quale gli orgogli nazionali possono trovar più facile inclinarsi, che innanzi ad altri orgogli, ed è un ente che diverrà tanto più autorevole e necessario quanto più si diffonderà anche sul continente, in conseguenza della sperabile o inevitabile successiva bancarotta dei vari egocentrismi nazionali, la percezione già viva in Inghilterra, che nessuna nazione oggi basta più né economicamente, né militarmente, né navalmente a sé stessa e che la sola sicurezza possibile è una sicurezza fondata sulla chiara intuizione di superiori interessi comuni. Ma le nazioni continentali non che essere più lungiveggenti, sono di gran lunga più insulari dell'Inghilterra, la quale pel solo fatto di essere il cuore di un mondo che abbraccia vari continenti, ha nella sua classe dirigente e nei suoi uomini di Stato gli organi di una mentalità plurinazionale, sintetica, avvezza a evitar le differenze evitabili, a cercare e creare punti di accordo e, proprio perchè ricca di successi, men riluttante ad opportune rinunce.





    Lloyd George ebbe l'intuito chiaro di questa politica, ma non seppe perseguirla a cagione di preoccupazioni parlamentari sopravvissute alla situazione in cui la coalizione fu giustificata. Ora essa è la politica non solo del Governo attuale, ma, si può dire, di tutti i partiti. Lord George e Lord Robert Cecil approvarono fin dalla sua enunciazione elettorale la politica estera di Robert Cecil. Costui sarà forse più propenso del Foreign Office a una politica d'isolamento, laddove il Foreign Office è preoccupato del fatto che ora il Reno è eventualmente anche per l'Inghilterra la prima linea di difesa. Lord Robert Cecil e Lord Grey saran forse più propensi a metter subito e sempre in prima linea la Lega; ma si tratta solo di varianti di una stessa tendenza. Similmente Bonar Law ha tendenza a porre l'accento sullo sviluppo delle risorse imperiali più che sulla ripresa del commercio continentale; ma finanzieri come il Mackenna e il Goodenough toccano tosto l'altra campana; ed il Keynes ha testé a Manchester in una conferenza sul secolo XIX ricordato ancor una volta a tutti che il problema fondamentale dell'Inghilterra odierna è quello del se o no essa sarà capace di assorbire il suo incremento di popolazione. Attualmente vi sono al lavoro certo non meno operai che nel 1914, e quindi la disoccupazione rappresenta popolazione non assorbita nel sistema industriale, in gran parte cagione della crisi del continente. Si tratta di sapere se col passare di questo tale incremento sarà o no di bel nuovo assorbito. In caso negativo l'Inghilterra, secondo il Keynes, seguirà il continente nella sua attuale decadenza in produttività economica; e l'avverarsi dell'una piuttosto che dell'altra alternativa può in gran misura dipendere dal successo con cui l'Inghilterra perseguirà quella che del resto è l'unica politica possibile: la politica della riconciliazione europea, la politica della Lega delle Nazioni, in una parola.

    Non intendo ora toccare dell'attuale scottante momento europeo; mio compito fu soltanto quello di formulare le linee generali direttive della politica britannica del dopoguerra nella luce della nuova situazione; linee che sono le sole compatibili con un tacito parallelismo d'azione con gli Stati Uniti; e che sono le sole capaci di avere per sé l'opinione pubblica dei Dominions e quindi di mantenere e consolidare l'unità spirituale dell'Impero; linee che sono un corollario diretto delle condizioni economico-demografiche della Gran Bretagna e che rimarrebbero le stesse pur se non vi fosse Impero o piuttosto Unione Britannica.

    In altro articolo tratteremo di politica costituzionale e imperiale.

ANGELO CRESPI