L'INTERVENTISMO
Caro Gobetti, nei "Lineamenti del nazionalfascismo", pubblicati nel N. 12 della Rivoluzione liberale, ho letto queste parole: "La rivoluzione reazionaria e plutocratica: ecco quello che offriva la guerra al nazionalismo italiano. Tuttavia, da solo esso non bastava all'impresa. Minoranza, cercò altre minoranze, decise, come lui, a prepotere. Trovò i repubblicani, ben lieti di rispolverare, dopo cinquant'anni di oblio, il programma del "partito d'azione": i sindacalisti-anarchici della settimana rossa; i veri transfughi del socialismo, che avevano bisogno di qualche altra cosa per far fortuna; quei radicali che, impazienti di non essere stati prescelti da Giovanni Giolitti, volevano gustare la torta del potere, e servire, insieme, il Grande Oriente francese. Tutti costoro si trovarono, si squadrarono, si pesarono, conclusero che si poteva mettersi insieme per l'unica vera rivoluzione che valesse la pena di fare: la conquista del potere. E così dal nazionalismo nacque il nazional-fascismo, che nelle giornate del maggio radioso seppe persuadere il paese, piegare il parlamento". Non so se Lei avrà trovato che le parole che ho riportato rispondano pienamente alla realtà storica; ma se le ha pubblicate senza postillarle, è ragionevole arguirne che esse non abbiano urtato nessuno dei suoi centri vitali. Ciò può non far piacere, ma non può fare eccessiva meraviglia a chi, come me, si trova in un diverso stato d'animo. Loro giovani che non hanno vissuto la neutralità, periodo forse ancora più tormentoso della stessa guerra, possono considerare le cose dall'alto della loro maturità politica e sentenziare che l'interventismo - in blocco - era superficiale e il neutralismo politicamente gli era superiore per lungiveggenza ed esatta percezione della realtà (1). Ma chi ha accettato la guerra come un tragico dovere e non faceva parte di nessuna delle "minoranze decise a prepotere", ha diritto di ricordare agli storici troppo semplicisti e semplificatori, che se la superficie delle giornate del maggio fu in parte torbida e schiumosa, al di sotto di essa, meno rumorosa, ma sicura e pronta al sacrificio, vi era la parte migliore e più pura dell'anima italiana. Per non ricordare che tre nomi, Bissolati, Vaina, Slataper non facevano parte di nessuna delle minoranze ricordate dall'Autore dei Lineamenti, a meno che il Bissolati sia compreso fra quei "transfughi del socialismo, che avevano bisogno di qualche altra cosa per far fortuna". Il nazionalfascismo che lo scrittore combatte, non poteva trovare in lui migliore alleato, perché il parlare con tanto altezzoso disprezzo di tutti coloro che hanno riconosciuto la necessità della guerra è stata una delle cause che più hanno legittimato della reazione fascista postbellica, e l'attribuire al nazionalismo una parte direttiva e di gran lunga predominante nel proclamare quella necessità giustifica il monopolio che il fascismo si è assunto del merito della guerra vittoriosa. Un unitario.
Caro Gobetti, Se l'"unitario" avesse letto con più calma, e con più attenzione, il suo sdegno non avrebbe avuto ragion d'essere. Nel passo da lui citato, come in tutto l'articolo (che è poi il capitolo di un libro, e va quindi giudicato definitivamente nel contesto) non si fa la questione della guerra o della neutralità, e non si giudicano, quindi, con eccessivo "altezzoso disprezzo" "tutti coloro che hanno riconosciuto la necessità della guerra", come non si fa nessuna esaltazione del neuutralismo. Si tratta, semplicemente, di caratterizzare certe categorie di politicanti interventisti, confluite a costituire il cosiddetto "fronte interno" e quel blocco politico che per l'appunto, il sottoscritto chiama "nazionalfascismo". Che cosa c'entrino, qui, figure individuali come quelle dello Slataper o del Vaina, i quali durante la guerra, a differenza di quelle categorie politicanti, non hanno fatto altra politica che quella del combattere al fronte e morirvi, non si capisce proprio; e lo stesso Bissolati, che ha pure le sue responsabilità, nel nazionalfascismo, non è precisamente quello a cui si applichi la categoria dei "transfughi del socialismo che avevano bisogno di qualche altra cosa per far fortuna". L'unitario fa questione di persone, laddove io parlavo di gruppi e di cricche politiche; fa questione della guerra nazionale, laddove io parlavo della politica interna di guerra d'una parte dell'interventismo. Non il fatto dell'intervento, e tanto meno la convinzione di "chi ha accettato la guerra come un tragico dovere", ma l’incremento e la trasformazione del nazionalismo e la nascita del fascismo nell'ambiente della campagna interventistica e della guerra erano oggetto del mio studio, come appariva chiarissimo già dalla parte pubblicata, e risulterà irrefutabilmente dall'insieme del libro. Comprendo e apprezzo moltissimo i sentimenti dell' "unitario"; ma se egli avesse seguito un poco la mia attività pubblicistica in questi quattro anni, si sarebbe accorto che io ho sempre proclamato che il valore nazionale della guerra, l'Italia, era reale e doveva essere riconosciuta da tutti. Ma altro è questo, altro è l'apprezzamento delle caste politiche che la guerra hanno malamente preparata e condotta, e peggio sfruttata. La guerra è una cosa; le "radiose giornate" sono un'altra. E la connessione fra le "radiose giornate" e il fascismo, sino alla marcia su Roma compresa, non l'ho certo inventata io, anche se io sono stato uno dei primi a riconoscerla e proclamarla. LUIGI SALVATORELLI.
(1) Non cretto che l'amico unitario possa citare un solo rigo mio che provi l'idea che egli m'attribuisce: si potrà vedere nel prossimo numero nell'ultimo dei miei Motivi di storia italiana il mio giudizio sull'interventismo.
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