MOTIVI DI STORIA ITALIANA
VI.
Socialismo di Stato
Dei risultati liberali raggiunti dalla rivoluzione unitaria soltanto Cavour tra gli uomini del suo tempo aveva avuto completa coscienza. Morto il ministro piemontese restava viva una situazione storica, ma la rivoluzione veniva a trovarsi senza contenuto e senza guida. Il problema di Cattaneo ridiventava dominante. Le iniziative regionali non alimentarono una sentita libertà. Le nuove avventure di politica estera s'imponevano alla nazione senza che il ritmo della vita economica vi corrispondesse.
Le classi medie avevano conquistato il governo senza istituire rapporti di comunicazione con le altre classi. Dopo il '70 su 27 milioni di abitanti erano iscritti alle liste elettorali meno di mezzo milione di cittadini. La povertà dell'economia generale determinava una situazione di parassitismo: il regime dominante si poteva considerare come una casta di impiegati i quali per conservare i loro privilegi tendevano a trasformarsi in una oligarchia contrastando ogni partecipazione popolare. L'eredità del Regno di Napoli pesava sul nuovo Stato, aumentando la corruzione e creando contro la vita agricola naturale una superstruttura di parassitismo burocratico ed elettorale. Non ci stupiremo che la lotta politica si confondesse in una caccia all'impiego.
Per tali premesse il governo italiano doveva naturalmente essere un socialismo di Stato. Come Lassalle per un calcolo di contingenze realistiche conduce a Marx, Rattazzi conduce a Mazzini. Mazzini e Marx (ove si prescinda dalle espressioni sentimentali che trovano i loro miti e dall'antitesi di stile e di psicologia che li separa: Mazzini, romantico, vaporoso, impreciso; Marx chiaro, inesorabile, realista) pongono in due ambienti diversi le premesse rivoluzionarie della nuova società e, attraverso i concetti di missione nazionale e di lotta di classe, affermano un principio volontaristico che riconduce la funzione dello Stato alle libere attività popolari risultanti da un processo di individuale differenziazione. In questo senso Mazzini e Marx sono liberali. Tuttavia Marx parla al popolo un linguaggio che può essere inteso perché si fonda sulle esigenze prime che trasportano alla vita sociale, Mazzini resta in un apostolato generico e retorico, sospeso nel vuoto dell'ideologia perché non potendo rivolgersi all'uomo dell'industria e dell'officina parla a un popolo di spostati, di disoccupati, di pubblici ufficiali.
Siffatte condizioni obbiettive non possono promuovere un movimento liberale, ma generano quasi per istinto lo sfruttamento utilitario delle etiche solidaristiche e socialistiche. Perciò dal '50 al '914 l'eredità cattolica e la disgregazione sociale, addirittura terribile nel Sud, costringono in Italia il nuovo organismo statale ad affermarsi secondo l'astratta funzione di moralità che corrompe i principi liberisti in una concezione democratica di stanca grettezza utilitaria. Il riformismo italiano non è stato inventato dai nostri socialisti, ma si è affacciato naturalmente con le prime discussioni sulla scuola popolare per poter dare un senso alla lotta contro i Gesuiti. Vincenzo Gioberti e Domenico Berti ne sono i padri legittimi.
L'evoluzione sociale dell'Italia dopo il '60, essendo stato introdotto nella vita della penisola un nuovo elemento di riorganizzazione economica, vien sostituendo al socialismo di Stato che aveva promosso la legislazione scolastica un più franco riformismo economico.
La ricostruzione scolastica tentata come rivoluzione morale aveva potuto creare un embrione di classe dirigente ma si era dimostrata incapace di un'espressione politica che valorizzasse le forze individuali. Il primo momento dell'organizzazione nelle coscienze popolari doveva essere infatti un momento per eccellenza economico, affermazione elementare di autonomia e di libertà.
Ma nei costumi della vita italiana questo tenue risveglio economico doveva confondersi in una caccia al privilegio: le prime aristocrazie operaie, invece di mantenere la loro posizione di intransigenza, invocano borghesemente la protezione della legislazione sociale, come le timide iniziative industriali chiedono l’appoggio del protezionismo doganale e delle sovvenzioni governative.
L'opera della sinistra come riformismo economico era dunque il coronamento logico della nostra impotenza rivoluzionaria. Era il risultato dialettico di due forze arretrate incapaci di esplicarsi: la teocrazia si continuava nella democrazia e nel riformismo, le tradizioni diplomatiche si riducevano a opportunismo di amministratore. L'istinto della conciliazione trasformava l'equivoco iniziale di Chiesa e Stato in equivoco di governo e popolo.
L'ideale del governo è una monarchia paterna dispensatrice di privilegi. Ma per l'eredità della rivoluzione non riuscita il movimento riformista italiano, come poi il Partito socialista, non può crescere nei quadri di uno Stato a cui il popolo non crede perché non l'ha creato con il suo sangue. Il socialismo tedesco coincide nel suo valore etico di liberazione popolare con il significato dello Stato, rappresenta la continuazione dello spirito di solidarietà della Riforma, è figlio dell'ascesi religiosa, e si misura secondo il realizzarsi dell'idea statale nella coscienza dei cittadini. La lotta pratica s'è ridotta nei termini dell'economia perché un principio comune è coessenziale agli spiriti e dal processo economico trae esso stesso sviluppo: la rivoluzione unitaria in Germania è stata popolare.
In Italia una tradizione che non è coscientemente liberale, ma istintivamente individualista si oppone alla vitalità di ogni sistema che ignori la libera iniziativa e attribuisca allo Stato un'attività distinta dall'attività dei cittadini.
Il socialismo di Stato si rivela dunque come un momento effimero, come una transazione che bisogna superare. Una volta venuti sul terreno della legislazione sociale la politica diventa un perpetuo ricatto in cui a eterne concessioni fanno eco eterne richieste senza che s'introduca nella lotta politica un principio di responsabilità.
Lo Stato viene corroso dal dissidio tra governo e popolo: un governo senza autorità e senza autonomia perché astratto dalle condizioni economiche effettive e fondato sul compromesso; un popolo educato al materialismo, in perenne atteggiamento anarchico di fronte all'organizzazione sociale.
Né la Destra né la Sinistra riuscirono a sottrarsi a questa necessità di protezionismo demagogico: Sella che seguì costumi cavouriani senza averne le attitudini diplomatiche fu l'uomo più impopolare nel paese.
Il nuovo Stato, impegnato sino al '70 in una politica estera prefissa, si trovava privo di risorse finanziarie, con una generazione di patrioti da compensare con la beneficenza pubblica e con gli impieghi, con uno spirito inconcludente di irrequietismo garibaldino da fronteggiare. Parve che ogni fortuna avvenire sarebbe stata compromessa se non si tenesse vivo lo stato d'animo di tensione e di aspettazione in cui si prolungava l’entusiasmo degli anni precedenti: e si nascosero le verità della politica finanziaria, si ostentò uno sfarzo, pur necessario, di opere pubbliche. La Destra, demagogica e anticonservatrice come la Sinistra, partecipe delle stesse illusioni radicali, divenne una consorteria. Allora il trasformismo di Depretis fu l'espressione più evidente di un'Italia che si pasceva di conciliazioni e di unanimità e non riusciva ad affrontare i terribili doveri della fondazione dello Stato. La Sinistra si rendeva anche eco di una caratteristica situazione meridionale: per essa il problema dell'unità veniva posto per la prima volta nei suoi termini sconfortanti di politica tributaria e di opere pubbliche.
Solo una pronte risoluzione del problema elettorale e del problema burocratico avrebbe potuto porre rimedio a questa situazione parassitaria: ma non si osava discorrere di autonomie regionali per non compromettere l'unità e si voleva mantenere il diritto elettorale a una ristretta oligarchia quasi per premiare la minoranza che aveva preparata l’unità e non complicare il problema dello Stato con l'intervento di nuove masse popolari, sinora neglette e ignoranti. Così non si riusciva a consolidare una situazione intelligentemente conservatrice che desse il suo tono alla vita nazionale e disciplinasse il sorgere delle nuove ideologie rivoluzionarie che avrebbero affrontato le responsabilità future. Sonnino e Franchetti invocarono invano l'allargamento del suffragio; Stefano Jacini, la mente più lucida della politica italiana dopo Cavour e Sella, veniva accusato di clericalismo quando proclamava questa esigenza di un partito conservatore e ne tracciava il programma con una precisione critica esemplare.
Quando gli italiani furono stanchi delle astuzie e delle lusinghe di Depretis si abbandonarono alle facili seduzioni della megalomania di Crispi, e nel fallimento africano tutta la nazione fu compromessa. Comunque suonino le tardive riabilitazioni, Adua segna l'estrema condanna di una facile mentalità romantica e rappresenta la critica preventiva di ogni ideologia nazionalista, destinata a sorgere in Italia con la mentalità dell'avventura e la preparazione spirituale parassitaria della piccola borghesia: l'imperialismo è un'ingenuità quando restano da risolvere i problemi elementari dell'esistenza.
Al principio del secolo XX la politica italiana deve culminare necessariamente nel giolittismo, dopo una parentesi reazionaria che basta per corrompere il programma e lo spirito del nascente partito socialista e a dimostrare i pericoli a cui la libertà in Italia si trova continuamente esposta. Con Giolitti la ripresa dei metodi di Depretis ha una serietà nuova. L'intuizione storica con cui si apre l'azione del piemontese è addirittura geniale per la sua aderenza alla precisa situazione del paese: l'uomo di Stato riconosce il suo compito nel creare una situazione di tolleranza nei conflitti sociali che si annunciano, in modo da non compromettere la lenta formazione di ricchezza e di mentalità economica moderna, attraverso cui il popolo italiano s'appresta a riparare alla sua inferiorità storica. L'Italia deve a Giolitti dieci anni di pace sociale e di onesta amministrazione; se anche egli sbagliò la misura nell'indulgenza alla demagogia, nelle pose dittatorie e nell'incostanza della schermaglia parlamentare, se fu inferiore a se stesso nell'avventura libica e di fronte alla guerra europea, resta l'uomo più caratteristico della situazione.
La guerra europea ci coglie in piena crisi unitaria e interrompe l'ascesi di ordinaria amministrazione e di serietà economica a cui il giolittismo ci aveva iniziati. E' la prova di maturità che l'Italia deve superare in contatto con l'Europa. Lo spirito della guerra fu infatti popolare e severo, segnò per i contadini del Mezzogiorno la prima prova di vita unitaria; il sacrificio fu tanto più eroico quanto più parve umile ed anonimo. Senonché s'inseriva nella guerra a limitarla e a deformarla nei suoi effetti educativi, lo spirito dell'interventismo che risuscitava la retorica garibaldina senza farne rinascere la generosità. La guerra nazionalista combattuta con lo spirito delle Leghe d'azione antitedesca e dei Comitati di salute pubblica era la guerra impopolare ed oligarchica che tornò a separare il paese tra una minoranza plutocratica e avventuriera e una massa di lavoratori non ancora differenziata. La crisi economica che ne conseguì e le disparità psicologiche generate dal privilegio appaiono allo storico come la spiegazione preventiva del fascismo il quale rappresenta l'ultima rivincita dell'oligarchia patriottica, cortigiana e piccolo-borghese che ha governato l'Italia da parecchi secoli, soffocando ogni iniziativa popolare.
PIERO GOBETTI.
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