I POPOLARI(1)

    Chi osservi spregiudicatamente i risultati e i motivi pratici dell'opera di Sturzo nel partito popolare deve ammettere che alle domande che gli erano state affacciate dagli sviluppi della sua stessa dialettica e dagli eventi, egli si è sforzato di rispondere, con logica costante, come si conveniva allo spirito di un liberale conservatore. E soltanto la sua abilità e la profonda onestà personale seppero evitare all'equivoca azione del partito i due scogli dell'eresia, che gli avrebbe tolto ogni importanza pratica, e del confessionalismo che l'avrebbe ridotto a un'inerte contraddizione.

    Il suo spirito di tolleranza si rivelò in pratica il più adatto a chiarire il problema delle relazioni tra Stato e Chiesa soffocando ogni rinascita del pericolo clericale. Il partito popolare confermò in ultima analisi l'infallibilità della politica ecclesiastica di Cavour e di Jacini; poiché la questione romana non mette in pericolo la religione e la nazione soltanto se permane un dissidio ideale tra Stato e Chiesa, una separazione di intendimenti, che può giustificare internazionalmente l'esistenza dei due poteri, mentre impone all'Italia l'obbligo di una dignitosa politica di libertà. Giova ricordare l'importanza del chiarimento recato dai popolari nella vita italiana con l'esempio di un partito cattolico che non subì in nessun caso la influenza del Vaticano. Sturzo fu l'antitesi più eloquente dell'equivoco neo–guelfo e del dogma giurisdizionalista: di fronte alla Chiesa le sue abdicazioni e concessioni furono tutte meno gravi di quelle alle quali si adattò Mussolini.

    Né la politica ecclesiastica fu il solo esempio di pratica liberale nel partito di Don Sturzo. Metodi e organizzazione si risolvevano in un senso schiettamente conservatore. Il libretto–professione di fede del deputato Stefano Jacini può parere una ripresa dei motivi economici e morali del ministro di Cavour.

    I contadini e i piccoli proprietari partecipando al partito popolare entravano per la prima volta nella vita pubblica portandovi un caratteristico spirito di avversione verso la politica megalomane e 1e preponderanze plutocratiche: si deve alla novità di questi interessi apertamente dichiarati la revisione tecnica della cultura clericale. Gli antichi clericali non si erano preoccupati di problemi pratici: risolta la questione essenziale con una professione di ossequio alla Chiesa non vedevano nello Stato la risultante di tutte le forze economiche e contingenti, né pensavano di penetrarne le esigenze. Suggerivano non dei problemi ma delle pregiudiziali, come la negazione del divorzio e la propaganda contro la pornografia. Suscitati i nuovi problemi, i tentativi di risolverli secondo un metodo semplicemente problemista hanno una funzione politica e conservatrice e Sturzo se ne è fatta un'arma contro le intemperanze dogmatiche e retrive dei destri e contro la palingenesi demagogica dei sinistri. Il richiamo alla realtà rompe le aspirazioni in frammentarie esigenze concrete, ma riesce pure ad assegnare al partito popolare un'adeguata missione e lo induce a farsi eco dei bisogni delle classi medie e agricole, impotenti a una rivoluzione, ma non più disposte a continuare nella politica parassitaria del collaborazionismo. Collaborazionisti poterono sembrare, in un difficile momento della vita italiana, i popolari, per il naturale istinto democratico che li moveva e perché la situazione del dopoguerra favoriva ogni professione demagogica. Ma la logica di Sturzo fu sempre chiara nella dichiarata avversione a Giolitti per la sua politica finanziaria e nella difesa delle autonomie e delle libertà scolastiche contro l'invadenza burocratica favorita dai ceti medi socialistoidi. Soltanto la politica sindacale poté sembrare il punto oscuro ed equivoco del programma. La moda della difesa degli interessi professionali, l'illusione che un parlamento del lavoro potesse risolvere le più difficili questioni, era invero in forte contrasto con l'istinto democratico e le aspirazioni liberali connaturate con la difesa di interessi largamente diffusi, pacifici e tolleranti. Ma l'errore fu scontato con la passione portata poi nella difesa del sistema parlamentare.





    Sturzo si assimilò il concretismo di Salvemini recando nel costume parlamentare almeno la parvenza di discussioni leali. Riproponendo il problema del regionalismo egli seguiva uno stile di singolare misura e di moderazione psicologica, riattaccando gli uomini alle tradizioni e agli interessi precisi, mentre tutta la politica si veniva facendo intorno a formule messianiche e a rivendicazioni retoriche. Disinteressandosi delle questioni più artificiose di politica estera proposte dai nazionalisti mostrava di intendere la necessità per gli italiani di dedicarsi a una politica di raccoglimento e iniziava con singolare precisione il suo compito di rieducatore delle medie borghesie, guarendole dall'infantilismo retorico, dall'illusione dell'avventura, dall'irrequietudine propria degli spostati.

    Sfuggì a Don Sturzo, tra tanti problemi visti lucidamente e affrontati con amministrativa ponderatezza e gretta modestia il problema centrale della vita italiana, che condizionava tutti gli altri: il problema delle forze capaci di creare e sostenere una classe dirigente. Le simpatie della classe ecclesiastica verso il nuovo partito, mentre furono in un primo tempo il segreto del suo successo, ne irrigidirono le manifestazioni contrastando il formarsi di organismi tattici corrispondenti alle sempre più incalzanti necessità di lotta aperta. Il sindacalismo bianco mancando di uno spirito battagliero di classe fu sfruttato dagli industriali come un espediente della resistenza agli operai estremisti, alla stregua dei krumiri.





    Tutte queste debolezze si rivelarono irrimediabili nel momento dell'offensiva fascista che se non riuscì a eliminare il partito dalla vita italiana ne diminuì tuttavia la funzione moderatrice e chiarificatrice. Non sapendo quali forze opporre ai vincitori la tattica più proficua parve allora a Sturzo un collaborazionismo guardingo e coraggioso che accanto alla demagogia retriva dei guerrieri disoccupati tendesse ad affermare la legittimità di un atteggiamento conservatore e rispettoso delle tradizioni. La proporzionale fu difesa appunto come uno strumento di pacifica democrazia e come il metodo più adatto per frenare le illusioni degli arrivati.

    Lontani dal fascismo e non più responsabili dell'esperimento di Mussolini la salvezza dei popolari per il futuro potrebbe consistere appunto nella loro attitudine a tener conto non soltanto delle proprie organizzazioni, ma delle esigenze vitali della media borghesia agraria che si è consolidata nel decennio giolittiano e che costituisce una delle forze conservative permanenti anche contro la nuova situazione del fascismo. La fortuna e la necessità, della pratica liberale moderata di Don Sturzo in questi anni consistono appunto nella sua capacità di continuare i compiti del giolittismo preparando, da buon conservatore, le condizioni favorevoli alla libera lotta politica.

P. G.

(I) S. IACINI: I popolari – Milano, 1923.