LA DESTRA HEGELIANA
III.SILVIO SPAVENTAIl problema dello Stato assume in Silvio Spaventa la concretezza storica attraverso la quale soltanto era possibile la sua soluzione liberale. Se prendiamo come termine di confronto Gioberti stesso nel Rinnovamento, dove sono le raticamente i rapporti intuiti dal filosofo torinese e con ciò stesso avvii a risolversi il loro contrasto; ma che Silvio riesca per il primo, in seno a questa corrente, a scorgerli nel suo aspetto storico e reale, non come aveva tentato il Gioberti stesso nel Rinnovamento, dove sotto le radici del riformismo più che del liberalismo, bensì come voleva lo spirito stesso della tradizione idealistica e, insieme, della politica italiana. Certo, se noi guardiamo al Silvio Spaventa direttore del Nazionale di Napoli nel '48 e alla corrispondenza sua col fratello fino al'60, tale nuova mentalità ci appare ancora in formazione. Da una parte essa vive nello studio di Hegel e nella ricerca filosofica un alto dramma speculativo: dall'altra, però, questo suo impulso concettuale non collima con la concezione politica, che tende a sollevarsi fino ad esso, ma é pur sempre legata a una impostazione contingente dei propri termini, al "dato" quarantottesco non trasceso più di quanto lo trascendesse la prassi cavouriana. C'era infatti un contrasto immediato da superare, tra la razionalità hegeliana della storia e il dogmatismo della rivoluzione, tra la necessità dello svolgimento e la mutazione improvvisa che di esso si veniva a richiedere: se la storia è "ragione tutta spiegata", com'è possibile che su tutto un filone di essa si pronunci il negativo verdetto rivoluzionario? e se la medesima storia è così perché è così, che diritto ha l'individuo o la parte di ribellarsi ad essa? L'opposizione del singolo e della collettività, della coscienza e dell'autorità, rimasta impigliata nelle maglie della dialettica in Bertrando Spaventa, troncata imperiosamente a favore del secondo termine dal De Meìs, appare nel nostro areno ardua appunto perché storica: egli comincia tosto a intravedere che si può risolverla nel senso dell'immanenza secondo cui vive lo spirito nell'individuo, la società nel cittadino, cioè come coscienza di un valore infinito in fieri, che corre dall'uno all'altro contrario. Anche il maggior fratello aveva indicato questa soluzione, e tuttavia non l'aveva attuata, ostinandosi a presupporre quel valore nell'universale storico e civile, come già formato o formantesi rispetto all'individuo: Silvio invece scorge che esso nasce in questo medesimo individuo e solo qui trova la sua specificazione concreta. Non si tratta più della "scoperta" dell'infinito che è "la Società: ma della Consapevolezza di esso, come creatura nostra e insieme nostra natura; lo Stato cessa di essere la realtà e la verità dell'individuo come altro dà questo, per diventare la verità della sua libertà; e la libertà non è coincidenza esterna con la legge, ma interna e autonoma unificazione di arbitrio e di volontà legale il cui risultato soltanto ci dà il principio dello Stato. Porre effettivamente lo Stato nel vivo agone dello spirito, senza alcuna trascendenza: rovesciare la teologia hegeliana e giobertiana dell'Idea nella compiuta autonomia della storia, non estrinsecamente come avevano creduto di fare Feuerbach e Marx, ma facendo capo alla riforma degli stessi concetti in questione: fondare davvero il liberalismo come non c'erano riusciti peranco né i filosofi né i guelfi moderati, e come Cavour aveva cominciato a delinearlo praticamente; così si può riassumere il compito di Silvio Spaventa e della sua critica liberale. Il compito era grave, ma non si può dire che sian mancate le forze all'ardito risolutore. Il quale, tenendo fisso lo sguardo al concetto dello Stato come perfezione della libertà, in questa libertà ricercò le radici dello Stato e della Nazione: perché la libertà si fa Stato in quanto giunge a razionalizzarsi, all'autocoscienza della propria ragione: e lo Stato si fa nazionale in quanto esso è concreto, è determinato, è storico. Non mai lo Spaventa dimentica, nel definire questa dottrina, il punto dì vista individualistico donde è partito: evitando accuratamente di negare l'individualità a profitto dell'universale, una volta pervenuto ad esso da quella, egli mostra come la prima si coordini e si organizzi nel secondo, a quel modo che il molteplice nell'uno. Vale a dire che, se lo Stato è frutto di un'elaborazione varia e pluriversa, liberale nel suo progresso prima ancora che nel prodotto, allora ciò che via via promana da questa elaborazione non si annulla perché essa è (relativamente) compiuta, ma confluisce nello stesso compimento e ne rappresenta la base. La volontà soggettiva, insomma, non solo è un momento necessario della libertà e della legge, ma la loro prima forma, su cui concrescono le forme più alte e perfette e che tuttavia esse conservano come l'albero conserva la radice, perché ne hanno bisogno qual nutrimento della propria vita. Su tale teoria si assidono, per Silvio Spaventa, la giustificazione del regime rappresentativo, in cui si legittima l'iniziativa particolare, e il diritto ad esistere dei valori politici locali (municipio, provincia, regione). Uno Stato che rinnegasse la sua faticosa genitura da questi ordini di vita sociale e di pensiero, che volesse sopprimerli sotto di sé per estendere senza confini il proprio potere, si taglierebbe gli unici piedi con cui può seriamente camminare e nell'ipotesi meno peggiore rimbalzerebbe a un grado e a un epoca di sviluppo di qualche secolo addietro. In pari tempo che sarebbe assurda la negazione dello Stato da parte dei valori particolari, che portano a costituirlo, se essa mirasse a distruggere in assoluto la statalità: quando si presenta, questa negazione è piuttosto l'affermazione di un nuovo Stato, che si erige dì fronte all'antico. La storia compare pertanto nella sua positiva dialettica, come vicenda che progredisce di balzo in balzo, attraverso il crogiuolo delle coscienze, delle lotte, delle sublimazioni: e la prassi rivoluzionaria si spiega come la figlia stessa del regime ch'essa vuol abbattere, sussulta con esso dentro un campo più grande e più sicuro di giudizio. Questo Stato spaventiano deve essere monarchico e laico. Monarchico, perché è sua funzione unificare democrazia e aristocrazia, libertà e autorità, governo rappresentativo e fermo potere sovrano: ora, soltanto la monarchia costituzionale sembra poter assolvere questo compito. Laico, perché ha già il divino in se stesso, e in questo divino la sua religione. Quest'ultima conseguenza logica delle sue premesse non fu tuttavia svolta con pieno rigore dallo Spaventa: egli la pose come un corollario della spiritualità antiecclesiastica. La forma coerente del principio idealistico da lui affermato avrebbe dovuto essere che la coscienza dell'infinito in cui si caratterizza lo Stato esclude e supera ogni altra infinità, oppure quando si piega a questa, gli è dall'infinito della religione. E pertanto il nostro postulava l'unità storica dei due infiniti nella loro conciliazione e nel loro reciproco rapporto: il che è, come tutti sanno, un modo dì girare la difficoltà, non di superarla. Lo Spaventa stesso aveva pensato, nel periodo cavouriano, che il rinnovamento politico dovesse portare a un rinnovamento religioso: lo Stato nuovo, o meglio la storia dello Stato moderno, crea ed esprime da sé la sua nuova chiesa. Tale è la forma della Protesta, che non sarebbe stata, nelle sue molteplici ramificazioni, se non avesse avuto dietro a sé un moto politico-economico che si staccava dal Medio-Evo; tale è l'aspirazione del neoguelfismo, che corre dal Primato alla Riforma cattolica. Ma quando, trent'anni più tardi, il teorico della Destra torna ad affrontare lo stesso problema, egli ridiscende al livello della formula cavouriana, superandola soltanto nella considerazione concreta delle forze che stanno dietro alle due libertà, della Chiesa e dello Stato. Per lui l'infinità dello Stato consiste dunque nell'infinità temporale; e ciò rivela una parziale e voluta limitazione del suo liberalismo, che non riesce a definire ancora come possa essere religiosa la politica in qualunque punto e forma del suo processo, comprendente anche la Chiesa, e invece rifugge dall'unica conseguenza percepita, la statolatria demeisiana, preferendo arrestare in questo senso il proprio sviluppo teorico a un compromesso. Nessun compromesso per contro nella serena e austera visione della politica italiana. Qui lo Spaventa fece tesoro del proprio pensiero teorico per differenziarsi nettamente così dalla corrente moderata tradizionale, come dalla forma anglicizzante del liberalismo: e in pari tempo per accentuare la distanza che separava la Destra dalla democrazia di sinistra, vagamente riformistica e settariamente laica. La natura della rivoluzione voleva, secondo egli stesso chiarì, che al trionfo pratico succedesse la coscienza dei legami avvincenti al passato e della realtà storica concreta; la natura del rapporto fra il particolare e la collettività, che lo Stato fosse un fattore positivo, non un legame estrinseco di elementi restii a una sostanziale unificazione e che d'altra parte esso Stato non evirasse i propri genitori né soffocasse i propri figli, come il dio del mito. Ma poi, questa rivoluzione avvenuta in Italia tanto meno autorizzava qualsiasi astrattismo quanto più essa si era attuata come espansione storica di una forza costituita; questo Stato italiano minato da tante incomprensioni e da così ostili malvoleri, non poteva non essere unitario e tendente in ogni modo a una libera e disciplinata unità. Non lo Stato fuori della vita regionale, né lo Stato storico, che rifugge dalla utopia come dalla reazione, che è "giustizia, difesa, direzione", che mira a essere in ciascun attimo del suo divenire, e a divenire in ciascun aspetto del suo essere. Lo stato non è il diritto contro l'individuo; come il cittadino non può essere l'individuo contro il diritto: ma è la "coscienza del diritto e della giustizia" di fronte e dentro al cittadino, è la forma della storia nazionale che assume i valori singoli senza annullarli. Stato di diritto in due sensi: nel senso della collettività verso i suoi membri, ma anche nel senso dei membri verso la collettività. Silvio Spaventa che nel'48 aveva definito il movimento proletario francese come una necessità storica di quella nazione, nel'76, alla Camera, ricordava con piena coerenza liberale che dal principio di eguaglianza "sorge un'esigenza terribile nella coscienza delle moltitudini, alle quali non basta di essere eguali dinanzi alla legge, ma intendono di sollevarsi, intendono di partecipare ai beni della vita". Questo è l'impulso che nasce nello Stato di volta in volta a modificarlo, secondo la classe in cui si specificano quelle moltitudini, secondo la forma e i limiti secondo cui s'intendono questi beni: tale è, sotto una visuale economica, la dialettica del governo liberale. Ma la dialettica nel nostro si impostava con più sicura universalità, che trascende una semplice ammissione di valori economici nella politica liberale, come troppo fu incline a ritener sufficiente il liberalismo della Destra degenere: essa poteva già opporsi al marxismo sullo stesso suo terreno, sia perché ne aveva dentro di sé il principio storico e non ne aveva le possibilità riformiste, perché era veramente un metodo e un indirizzo, e non un dogma demagogico come quelli che vedeva trionfare con la Sinistra. SANTINO CARAMELLA.
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