LA POLITICA ECCLESIASTICA NEL RISORGIMENTO
I.
Lo Stato Italiano, costituitosi in unità più per forza di circostanze e per eroica volontà di solitari che per precisa coscienza di popolo, si trovò impreparato a risolvere, come tanti altri, anche il problema della politica ecclesiastica; lasciandosi trascinare dagli eventi, anziché dominarli. Gli mancavano, per poter riuscire a una soluzione coerente del problema, due condizioni essenziali:
una precisa coscienza del valore della religione e del cattolicismo in particolare e una precisa coscienza dei diritti e dei limiti della Sovranità statale.
Il che era in rapporto con le condizioni generali della coltura delle classi medie, in cui le tendenze si dibattevano tra una religione clericaleggiante da un lato; ed un laicismo dogmaticheggiante e parimenti chiesastico dall'altro.
Il problema dei rapporti tra Chiesa e Stato, grave dovunque, diventava gravissimo in Italia, dove l'Unità s'era ottenuta non soltanto senza la cooperazione della Chiesa, ma contro la volontà della Chiesa: e la Chiesa vedeva nel giovane Stato il sacrilego usurpatore de' suoi sacri diritti. Sicché, da una parte si aveva una focosa reazione laica che pretendeva di abbattere insieme e come conseguenza del potere temporale, anche il potere temporale dei Papi; dall'altra una tenue reazione clericale che voleva difendere, e poi riaffermare, con l'autorità religiosa, anche il potere politico.
Su questa antitesi fu costruita la Legge delle Guarentigie, una specie di magna Charta della politica ecclesiastica italiana, che regola tutt'ora i rapporti fondamentali tra Chiesa e Stato; fra questa antitesi si é svolta per settant'anni, con infinito danno per gli interessi nazionali, la vita interna dell'Italia.
È ormai un luogo comune esaltare la sapienza legislativa della destra che inspirò la Legge delle Guarentigie e ne formulò gli articoli. In essa si riflessero - e non potevano non riflettersi - le agitate condizioni del tempo. E a bene analizzarla si scoprono difetti non di dettaglio soltanto, ma di sostanza, non solo di applicazione, ma d'inspirazione.
Occorre mettersi bene in testa un punto: la Legge delle Guarentigie non può essere l'eterno codice per le relazioni fra lo Stato e la Chiesa.
Ogni legge politica, appunto perché tale é destinata a trasformarsi; in quanto nella migliore delle ipotesi, risolve i problemi politici di un dato periodo. Per la Legge delle Guarentigie, oltre questo principio generale, valgono altri dati di fatto che ne accentuano e ne illuminano, il necessario carattere di precarietà.
Essa, infatti, non fu il risultato di un disegno che, almeno nelle linee fondamentali, si presentasse con nettezza alla mente del legislatore. La stessa Destra era tutt'altro che unanime non solo per la formulazione degli articoli, ma per lo spirito stesso che avrebbe dovuto in formare il documento; come in generale in tutto il suo indirizzo di politica ecclesiastica.
È necessario per la retta intelligenza del nostro punto di vista, indagare brevemente lo stato d'animo e le condizioni di fatto da cui s'espresse la politica ecclesiastica del nuovo Regno.
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La magnifica affermazione dell'indipendenza dello Stato dalla Chiesa, che andavano gradatamente svolgendo alcuni Stati italiani - specie il Regno di Napoli e il Granducato di Toscana - nella seconda metà del secolo XVIII, fu bruscamente interrotta dalla rivoluzione francese, la quale inserì nella lotta politico-ecclesiastica il suo settarismo giacobino e il suo pseudo religionismo laico.
Lo Stato, o meglio gli Stati costituitisi sui fondamenti degli immortali principi sbandierati dalla rivoluzione, ne ereditarono anche lo spirito giacobino; cioè la volontà di combattere nel Cattolicismo, non solo le sue deviazioni politiche, ma la sua stessa essenza di religione.
Si costituiva il laicismo, ch'ebbe in Francia la sua più caratteristica espressione e che lanciò anche in Italia, tentacoli poderosi, da cui neppur ora la patria nostra riesce a liberarsi del tutto.
Erano i tempi in cui il positivismo comtiano pontificava nel campo del pensiero e si manifestavano i sintomi del materialismo di Buchner e di Haeckel.
Una ingenua fede nel valore assoluto della Scienza - fatta termine vittorioso di confronto con la Fede religiosa - una vaga aspirazione alla luce schiarante di un indefinito Progresso, a una Umanità redenta da tutte le contese sociali e nazionali, in cui il "beati i pacifici" avesse la sua più radiosa attuazione, erano i costitutivi essenziali di codesto laicismo, pseudo scientifico, quanto pseudo religioso.
È l'esaltazione del Mondo nella sua finitezza terrena - trionfante contrapposto all'infinito della dogmatica - della civiltà nella sua materializzazione edonistica; della Umanità, quale confine ultimo dell'attività degli uomini, specie di novissimo Regno, - dell'uomo, anziché di Dio - in cui tutte le miserie sociali, tutti i dolori umani, tutti gli odi, le ingiustizie e le guerre dovranno sommergersi in un tranquillo universale oceano d'amore; e la Pace e la Giustizia regnare incontrastate.
Le scienze sperimentali, che erano il pensiero stesso maturatosi a traverso lotte doloranti "provando e riprovando", parvero invece lo strumento con cui il pensiero era stato illuminato. Sembrò che, d'improvviso, l'uomo, come già il biblico Adamo gustando del pomo misterioso - avesse afferrato la Verità e costrettala una volta per sempre sotto il suo dominio i cieli fossero ormai squarciati, il fuoco divino involato: - Prometeo poteva lanciare, finalmente, il suo peana di trionfo.
S'ebbe la sciocca pretesa di uccidere con l'arma della Scienza (nelle sue espressioni "positive", e cioè sensibilmente tangibili) la Religione; si detronizzò Iddio, per esaltare il diavolo.
"Salute, o Satana".
Così la Scienza diventava essa stessa la religione, con sacerdoti e templi e dogmi e scomuniche.
"Ogni nuova scuola costituirà una Chiesa".
Fu il gran verbo del laicismo.
E si risolse in una squisita sciocchezza.
Si accusavano i preti di avere inventato Iddio - stupendi artefici invero! (così come si accusavano i Principi di fomentare e perpetuare le divisioni di razza e di esser causa immanente delle guerre fra gli Stati!). Si scambiavano le deviazioni dalla religione per la sua essenza; si confondevano nello stesso giudizio, e nella stessa condanna clericalismo, cattolicismo, cristianesimo e perfino! sentimento religioso.
Un senso generale di stupefacente superficialità storica, filosofica, religiosa annebbiava le menti, e si traduceva naturalmente nella incertezza e nell'oscurità dominanti nel campo politico.
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Né a queste nuove correnti di pensiero rimase estranea la regione, che era destinata ad avere parte preponderante nelle sorti politiche e legislative del futuro Regno d'Italia: il Piemonte.
Gli uomini politici che, dopo il '48, si successero nel governo subalpino - compreso lo stesso Cavour - erano tutti, qual più qual meno, imbevuti d'idee francesi; le quali, se non erano riuscite a estirpar da' loro animi le salde radici tradizionali, e a farli entusiasti del culto della Dea Ragione, vi avevano tuttavia impresso orme profonde. Cosa inevitabile, del resto, per il fatto che la Francia, in nome della libertè e della fraternitè di tutti i popoli... aveva soggiogato il vicino regno e violentemente plasmatolo delle proprie idee e de' propri costumi; né la reazione spirituale del Piemonte poteva essere troppo forte, messo in confronto il patrimonio d'idee del piccolo Stato, con la grande tradizione intellettuale e politica della Francia.
Si, che molti di quegli uomini politici avevano, per così dire, respirato l'aria satura degli incensi della Dea Ragione; o avevano, sotto la restaurazione, lungamente soggiornato in Francia, in contatto con gli elementi più fattivi dello spirito nuovo della rivoluzione.
Non bisogna dimenticare, infatti, che la generazione del'48, la quale impose a Carlo Alberto la costituzione e assunse il timone dello Stato, era quella stessa che aveva fatto la rivoluzione del'21, ed era poi vissuta, esiliata, fuor della Patria, costituendosi un notevole patrimonio di idee e di esperienza politica (in terra straniera) (1).
Abrogate per successivi reali decreti le loro condanne, gli aristocratici rivoluzionari del'21 tornarono in patria, con una coltura variamente formata e indubbiamente multiforme; ma in cui il bagaglio sempre scintillante degli immortali principi - codificati ormai in dogma immutabile sotto i benigni auspici del Re Borghese - occupava il posto d'onore. Il temperamento equilibrato dei piemontesi vietava di portare alle estreme illazioni certi principi; ma non così che, in qualche modo, il vecchio mondo d'idee, di costumi, di sentimenti -
che la Sacra Maestà di Vittorio Emanuele I s'era fissata di rimettere graziosamente a nuovo e che lo stesso Carlo Alberto non aveva osato, per quasi un ventennio di regno, seriamente intaccare, - non se ne sentisse scosso e non presentisse, nelle menti più chiaroveggenti, se pure ad esso sempre affezionate, la sua imminente dissoluzione.
E il liberalismo - che nella mente de' suoi assertori e, ancor più, de' suoi adoratori - apparve come la nuova rivelazione che un Dio Benigno avesse fatto alla umanità dolorante, s'impone con lo scintillio delle sue dottrine e col fascino de' suoi risultati immediati, a quanti in calma vigilia pensosa o in esasperata attività, maturavano nuovi tempi.
E da vigoroso sentimento di reazione a un passato di restrizioni e di soprusi, il liberalismo andò cristallizzandosi in ischemi dottrinari assoluti e, alla lor volta, intransigenti.
I nuovi Stati si costituivano con i difetti, se così m'è lecito dire, dei loro pregi. Le astrazioni più vaporose dominavano le menti e quindi le costituzioni politiche che ne germinavano.
(continua).
VINCENZO CENTO.
(1) Questo fatto, importantissimo per le sue conseguenze sociali e politiche, in quanto la forma mentis di quegli uomini si rifletteva nell'attività organizzatrice e sistematrice della nuova Italia, non mi pare sia stato messo finora nella dovuta luce.
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