CAPITALISMO E LIBERTÀ
Le informazioni che i quotidiani recano, da qualche tempo, intorno alla crisi che matura in seno alla democrazia sociale, meritano qualche considerazione. Il dissenso cade, a quanto pare, sulla convenienza o meno di continuare a prestare la collaborazione ministeriale al Governo, e, conseguentemente, di ripudiare i principi tradizionali del Partito. Ma, comunque sia risolto, per espediente tattico, la momentanea difficoltà, essa proporne, col suo semplice apparire, il seguente essenziale problema: se le correnti di democrazia siano destinate, per mancanza di adesione al terreno economico, a inaridirsi e sparire; o se, invece, esse non trovino delle salde ragioni di esistenza nel fatto di interpretare in maniera sufficiente e, comunque, storicamente non superata, gli interessi d'una borghesia in sviluppo. ***
Il pubblicismo fascista, essendosi proposto questo stesso quesito, lo ha risolto nel senso che i partiti della democrazia, non meno dei socialisti e dei liberali, sono in via di estinzione. Tale opinione è, molto probabilmente, monca dallo stesso punto di vista della cronaca interna dei partiti: poiché tutte le formazioni politiche oggi esistenti mostrano la tendenza a continuare l'esistenza nonostante le pressioni del partito dominante, senza interruzioni formali. Ma è poi certamente infondata dal punto di vista della funzione democratica, considerata, nella sua relativa perennità, come espressione delle invincibili necessità dello stesso sviluppo del paese. Per supporre che ogni possibilità di ripristino democratico sia preclusa, bisognerebbe ammettere una di queste due cose: o che il fascismo sia risoluto ad escludere l'Italia da quei progressi, a cui la grande economia borghese, cresciuta in ambiente inalterato di libertà, ha portato gli Stati occidentali; ovvero che il fascismo, con la politica paternalistica e compressiva che rappresenta, realizzi proprio esso l'ultima parola del progresso borghese e capitalistico medesimo. Ora è diffuso in molti gruppi il convincimento che il fascismo sia una risoluzione tipicamente piccolo borghese, e, perciò solo, una vera e propria involuzione del capitalismo, come forza creatrice e progressiva. È difficile accogliere in pieno questa tesi contraddetta da troppi elementi di fatto. Tuttavia è ben certo che l'attuale fase dell'economia italiana non costituisce davvero l'ultima Thule dell'economia fondata sull'appropriazione privata. E resta, pertanto, aperta la questione di sapere se gli ulteriori, inevitabili sviluppi di essa, si debbano accompagnare a forme politiche di carattere autoritativo come sono quelle del fascismo, o non si esprimano, invece, naturalmente, nelle libere forme di una democrazia. Volendo trovare, per quanto è possibile, un termine di analogia con lo stato attuale del nostro sviluppo economico, bisogna ricorrere, non già al mondo anglo-sassone di oggi, carico e saturo di capitalismo, ma all'Inghilterra di un secolo fa. Il nascente industrialismo inglese, appunto perché non ancora maturo e forte, oppose allora alla legislazione protettrice delle classi lavoratrici, rassomigliante a un dipresso alla nostra politica riformista dell'ultimo ventennio, una fiera resistenza. Ma, viceversa, i successi sempre più crescenti dell'industrialismo guidato da un ceto di intraprenditori energici, coincise coll'accentuarsi e col consolidarsi del movimento liberale, che investì rapidamente tutte le forme delle convivenze civili. Il trionfo della libera concorrenza nei rapporti interni e nei rapporti internazionali, si estese automaticamente e con notevole rapidità anche alle relazioni che correvano fra i datori di lavoro e i prestatori di opera. La libertà, dalla classe animosa dei capitalisti produttori non fu così concepita, come un proprio privilegio e come una ragione di inerzia, vita come un'atmosfera generale, in cui anche la concorrenza operaia poteva dispiegarsi, e poteva produrre, al pari di ogni altro elemento di concorrenza, i propri effetti stimolanti. In realtà il capitalismo industriale è, nella sua stessa essenza, come ben ha scritto Arturo Labriola, esperienza del nuovo e libertà di spirito in tutti i sensi della parola. È, in tutti i sensi, invenzione e creazione; onde lo storico conflitto fra ceti agricoli e ceti industriali è, prima ancora di essere un contrasto economico e sociale, un contrasto intimamente psicologico e morale. Esso mette di fronte la mentalità passiva, conformista e increativa dei primi con la inquietudine, la insofferenza del consueto e la diffusa genialità, che è proprio dello spirito capitalista. Non è un caso, ma una affinità segreta e feconda, quella che, dappertutto, nell'Europa civile, identifica l'elemento agrario con i conservatori e l'elemento industriale con i gruppi liberali e democratici. Ma, da questo punto di vista, può essere ragionevole concludere che il fascismo, che riscuote i più saldi consensi nella borghesia rurale, non è, proprio per questo, il più adatto a comprendere le necessità dello sviluppo capitalistico del paese; e che, viceversa, ogni tendenza capitalistica di carattere progressivo, e cioè realmente produttore, troverà in una riuscita ideologia democratica il proprio riflesso più fedele e la più propizia condizione di incremento. ***
Qualche alterazione in questo rapporto parrebbe essere portata dall'avviamento sempre più nazionale che la produzione economica attraversa, per cui l'idea di nazione si porrebbe come antagonista della idea di libertà. Ma, se tale contrapposizione può essere comprensibile sul terreno politico e in momenti eccezionali, essa manca di ogni significato di fronte alle esigenze intrinseche dell'economia. Tradotto nei termici più precisi del linguaggio economico, il concetto di nazione non può significare, in concreto, o che la produzione del paese sia portata al più alto sviluppo, o che la produzione, quale che ne sia lo sviluppo, sia opera esclusiva di elementi nazionali. Però, tanto nel primo caso che nel secondo, non c'è motivo alcuno per ritenere che l'esercizio delle libertà pubbliche e il rispetto degli istituti democratici contraddica agli obiettivi in questione. Questi istituti non sono altro che le condizioni formali, nell'ambito delle quali è possibile la lotta politica, che include la lotta per la ripartizione dei redditi. Appare, pertanto, evidente che il libero contrasto delle opinioni e delle agitazioni civili, in tanto può recar danno alla "nazione", in quanto si assume per vero che il vantaggio della produzione si identifichi coll'attribuzione dei redditi alla classe degli intraprenditori nella misura tradizionale. Ora ciò non risponde affatto a verità. La storia di un secolo di capitalismo europeo ce lo presenta come un'incessante vicenda di trapassi di redditi da un gruppo a un altro gruppo di imprenditori, da una branca a una branca diversa della produzione, dal ceto dei percettori di dividendi alla classe dei riscuotitori di salario, ecc., ecc. L'idea di nazione è perfettamente estranea e indifferente a ogni e qualsiasi criterio di ripartizione del reddito fra le varie classi che cooperano alla produzione, essa non suggerisce nessuna preferenza piuttosto a favore degli imprenditori che dei capitalisti o degli operai; e identificandosi essa sul terreno economico con l'idea della massima produzione può, volta per volta, coincidere con l'interesse di quella classe che è più idonea, in determinate circostanze, a darle incremento e sviluppo. La Russia attuale ci offre ancora, nelle grandi linee, il tipo di una produzione il cui reddito va attribuito, salve le capitalizzazioni necessarie, ai prestatori di lavoro. Nel capitalismo orientale, ora nascente all'ombra dei nazionalismi accesi dalla guerra, si delineano invece degli esempi di produzione nazionale, che assegna i propri redditi in gran parte alla classe degli imprenditori. L'economia nazionale, in quanto è soltanto economia e produzione, comprende l'una e l'altra alternativa, e comprende più che tutto le innumerevoli forme intermedie; le quali hanno poi la illustrazione definitiva in Germania, dove la più rigorosa economia a carattere nazionale si è congiunta alla più illimitata libertà democratica dei sindacati operai, in lotta per appropriarsi la maggior quantità dei redditi dalle intraprese. ***
Lo sviluppo del capitalismo finanziario, che aveva trovato nella Germania di anteguerra l'ambiente più propizio e che è, in ogni modo, la più alta forma conosciuta del processo capitalistico, corrisponde a questa dinamica intima dell'impresa produttiva; in questo senso la presuppone e la implica, e non potrebbe esistere se il contrasto per la ripartizione del reddito non esistesse; ciò che basta poi per fugare parecchi errori che corrono in proposito. Il più comune tra essi consiste nel rappresentarsi la plutocrazia come l'espressione ultima del capitalismo produttivo, di cui sarebbe come l'estrema concentrazione, corrispondente ad una grande unità di comando nella fabbrica, e, cioè, corrispondente ad una negazione in atto dei postulati della democrazia. Però non v'è visione di fenomeno economico più falsa e convenzionale di questa: poiché ben lungi dall'essere la espressione finale e il succo concentrato del capitalismo produttivo, cioè del ceto degli imprenditori, il capitalismo finanziario, ossia la classe dei plutocrati, ne è il superamento e il diniego più radicali. Anche ammesso - ciò che non è - che il capitale produttivo abbisogni, per vivere e per aumentare, della soppressione di ogni libertà, sopratutto operaia, e di un ambiente politico coercitivo, tale non è assolutamente il caso per il capitale bancario. Questo regola e sorveglia la produzione da lontano e, per ciò, in un certo senso, gli è quasi indifferente che i frutti della industria, dopo che il capitale è stato remunerato, vadano nelle tasche degli imprenditori o in quelle degli operai. È facile vedere come, da questa posizione verso i vari gruppi che prendono parte al processo produttivo vero e proprio, all'adozione di una politica di libertà per entrambi i gruppi, il passo è molto breve: sia brevissima, cioè, la distanza che separa la plutocrazia dalla democrazia. Si può anche dire di più. Costituendosi il capitale bancario come una forza estranea e superiore tanto ai gruppi dei produttori come alla classe dei lavoratori, esso ha quella stessa tendenza che è propria di tutte le funzioni sovrane, cioè incoraggiare, delle due forze che gli sono sottoposte, la minore di esse, e cioè la operaia, e comprimere in diverse maniere la classe degli imprenditori, che, essendo la più forte, è la più minacciosa per lo stesso ceto plutocratico. La famosa "plutocrazia demagogica", più che essere un espediente politico, è così un accoppiamento naturale, che risulta dalla natura stessa del capitale finanziario: perché mettendo alle prese, per l'appropriazione del reddito industriale, le classi padronali a quelle operaie, il regime della democrazia consolida il dominio del ceto plutocratico. Ma questo adempie pur sempre alla superiore funzione di regolare la produzione; e, pertanto, il valore regressivo che, dallo stesso punto di vista dell'economia borghese, è implicito in ogni politica di carattere coercitivo, ha una misura precisa: ed è precisamente nel significato progressivo che, per la stessa economia capitalistica, spetta a quest'ultima fase di essa che è il capitalismo finanziario. ***
Ma, detto questo, è molto difficile supporre che, nonostante l'attuale eclissi, una democrazia italiana non abbia a risorgere. Tanto varrebbe dire che l'economia del Paese è destinata a restare nelle attuali forme quasi patriarcali dell'azienda agricola e della media intrapresa industriale. Ciò non è però nella possibilità e neanche, si deve credere, nelle intenzioni degli attuali gruppi dominanti più illuminati. E quindi non è dubbio che, dovendo anche l'Italia entrare definitivamente nel novero dei grandi paesi civili, e cioè capitalistici, dell'Occidente e del Centro d'Europa, noi rivedremo, in un tempo più o meno breve, funzionare in pieno gli istituti democratici; e, nella stesso tempo, rimettersi in moto nel paese delle nuove e vaste correnti di democrazia, essenzialmente borghese. N. MASSIMIO FOVEL
POSTILLA
Siamo lieti che anche la voce di Massimo Fovel si unisca alla nostra nel riportare il problema dell'Italia moderna ai suoi fondamenti di immaturità economica e politica. Fu uno dei nostri chiodi fissi l'esortazione a considerare le distanze che dovevano separare dal fascismo una classe di capitalisti seri ed intransigenti. Solo dalle debolezze provinciali del capitalismo italiano nacque l'illusione di potersi servire del fascismo. Il fascismo fu ottimo servo. Ma solo in tempo di disoccupazione per far pesare sulle classi umili i danni di politiche e di economie avventurose. Non è troppo avventata la previsione che la politica paterna finisca per doversi decidere e urtare perciò contro le libere opposizioni. Questa eventualità ci suggerisce le seguenti considerazioni tattiche. Sulla politica delle classi operaie, sulla loro cosciente ribellione si potrà contare soltanto in un secondo tempo. E' probabile che la prima opposizione al governo fascista in nome del socialismo venga utilizzata e accettata da Mussolini. Egli non esiterà ad essere più socialista di Turati, sconvolgendo così le prime posizioni della lotta proletaria che deve ancora compiere ben altre esperienze per capire che la sua salvezza è nella sua inesorabile solitudine. Nel più vicino avvenire i primi ad accorgersi della loro incompatibilità con la demagogia paterna del futurista governo medioevale saranno i ceti capitalistici che avvertono pei loro stessi interessi le misure di una politica equivoca. Qui c'è un principio di chiarimento perché di una sola direzione il trasformismo mussoliniano, a nostro avviso, non è capace: di seguire una politica francamente conservatrice. È proprio il caso di dire che solo i conservatori potranno lavorare in un primo tempo per la rivoluzione liberale. Invece, in quanto alle democrazie, non temiamo che esse finiscano col fare il gioco del fascismo, se non altro perché non hanno ancora capito il valore della parola: intransigenza. p.g.
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